Vivaldi, il Veneto, l'Europa


Seconda Edizione

4 ottobre 2023, ore 19

I VIRTUOSI ITALIANI

GLAUCO BERTAGNIN maestro di concerto al violino

ESTRO, STRAVAGANZA, FANTASIA E INVENZIONE


ANTONIO VIVALDI imparò a suonare il violino dal padre e precocemente dimostrò il suo grande talento. Fu presto ammesso a frequentare i musicisti della Cappella del Doge e forse qui, ma non è certo, ebbe lezioni anche dal Maestro di Cappella Giovanni Legrenzi; si ritiene comunque che gli influssi di questo maestro siano stati scarsi se si pensa che egli morì nel 1690 quando Vivaldi aveva appena 12 anni. Non vi sono dubbi, comunque, che Vivaldi abbia tratto grande giovamento dal frequentare già in età molto giovane l’ambiente musicale della cappella di San Marco.

All’età di dieci anni era stato indirizzato verso la vita ecclesiastica frequentando la scuola della sua parrocchia, questo di conseguenza al volere di sua madre che il giorno della nascita di Antonio, vedendo le condizioni di salute di suo figlio, promise che se fosse sopravvissuto sarebbe diventato un sacerdote. 

Non abbandonò la musica anzi l’abilità con cui suonava il violino fece sì che già nel 1696 fosse impiegato come violinista soprannumerario durante le funzioni natalizie presso la cappella della basilica di San Marco; questa fu la sua prima apparizione in pubblico come violinista. Contemporaneamente faceva parte del gruppo Arte dei sonadori.

Il 23 marzo 1703 fu ordinato sacerdote e fu subito soprannominato il prete rosso per il colore della sua capigliatura che però era nascosta dalla parrucca che era moda indossare in quel periodo; continuò a vivere con la sua famiglia ed a lavorare strettamente con il padre. Benché giovane la sua fama iniziò presto a diffondersi e nel settembre 1703 fu ingaggiato come maestro di violino dalle autorità del Pio Ospedale della Pietà, dove iniziò la sua attività il 1º dicembre 1703 con uno stipendio di 60 ducati annuali; qui rimase sino al 1720.

Il suo rapporto con il consiglio direttivo dell’Ospedale, a giudicare dai pochi documenti rimasti, sembra essere stato altalenante. Ogni anno i vertici dell’istituto veneziano si riunivano per votare se tenere oppure no un insegnante. Anche se Vivaldi fu raramente sottoposto al voto, nel 1709 perse il suo posto per 7 voti contro 6 a favore. Però dopo aver esercitato la libera professione di musicista per oltre un anno fu riassunto nel 1711 alla Pietà, sempre a seguito di una votazione del consiglio dell’istituto. Questo probabilmente perché la direzione aveva ben compreso la sua importanza all’interno della scuola. Nel 1713 divenne il responsabile per l’attività musicale dell’istituto e nel 1716 maestro de’ concerti. Con molta probabilità Vivaldi continuò a rifornire la Pietà di concerti e composizioni varie durante tutta la sua vita, anche in forma privata.

È durante questi anni che Vivaldi scrisse gran parte della sua musica, comprese molte opere e anche numerosi concerti. Nel 1705 venne pubblicata la sua prima raccolta, ma la rinomanza a livello internazionale fu raggiunta con la sua prima collezione di 12 concerti per uno, due e quattro violini con archi, L’estro armonico (Opus 3), la quale fu data alle stampe ad Amsterdam nel 1711, grazie alla famosa mano dell’editore Estienne Roger, all’avanguardia con le nuove tecniche di stampa rispetto agli editori veneziani Sala e Bortoli. La sua uscita fu pubblicizzata con un annuncio sul The Post Man di Londra. Questi concerti ebbero uno strepitoso successo in tutta Europa e furono seguiti nel 1714 da La stravaganza (Opus 4), una raccolta di concerti per solo violino e archi.

Nel febbraio del 1711 Vivaldi e suo padre si recarono a Brescia, dove diede il suo Stabat Mater RV 621, commissionato dalla Congregazione dell’Oratorio di San Filippo Neri. Nel 1718 Vivaldi iniziò a spostarsi con molta facilità, ma sembra non aver mai rotto i legami con la Pietà. Dalle registrazioni degli atti è possibile constatare che tra il 1723 e il 1729 fu pagato per comporre almeno 140 concerti.

Nel 1717 o 1718 fu offerto a Vivaldi il prestigioso incarico di maestro di cappella da camera alla corte del principe Filippo d’Assia-Darmstadt, governatore di Mantova e noto appassionato di musica. Egli si trasferì dunque nella città lombarda e vi rimase per circa tre anni. 

Questo è il periodo in cui egli scrisse Le quattro stagioni, quattro concerti per violino che rappresentano le scene della natura in musica; probabilmente l’idea di comporre questi concerti gli venne mentre stava nelle campagne attorno Mantova e furono una rivoluzione nella concezione musicale: in essi Vivaldi rappresenta lo scorrere dei ruscelli, il canto degli uccelli, il latrato dei cani, il ronzio delle zanzare, il pianto dei pastori, la tempesta, i danzatori ubriachi, le notti silenziose, le feste di caccia (sia dal punto di vista del cacciatore che della preda), il paesaggio ghiacciato, i bambini che slittano sul ghiaccio e il bruciare dei fuochi. Ogni concerto è associato a un sonetto scritto dallo stesso Vivaldi, che descrive la scena raffigurata in musica. Furono pubblicati come i primi quattro concerti di una raccolta di dodici: Il cimento dell’armonia e dell’inventione Opus 8, pubblicata ad Amsterdam, nel 1725, da Michel-Charles Le Cène, che era succeduto ad Estienne Roger nell’attività editoriale.

All’apice della sua carriera, Vivaldi ricevette numerose commissioni dalle famiglie nobiliari e reali d’Europa. L’Opus 9, La cetra, fu dedicata all’imperatore Carlo VI. Vivaldi ebbe occasione d’incontrare l’imperatore in persona nel 1728, quando questi si recò a Trieste per supervisionare la costruzione di un nuovo porto. Carlo ammirò così tanto la musica del Prete Rosso, che, come egli stesso ebbe poi modo di riferire, si intrattenne più a lungo con il compositore in questa occasione, che non con i suoi ministri nell’arco di due anni. A Vivaldi egli conferì il titolo di cavaliere, attribuì una medaglia d’oro e avanzò un invitò a corte a Vienna. Dal canto suo il musicista presentò all’imperatore una presunta copia del manoscritto de La cetra. Sennonché, questa raccolta di concerti è quasi completamente differente da quella pubblicata con lo stesso titolo, come Opus 9: probabilmente un ritardo di stampa aveva costretto Vivaldi a confezionare alla meglio una collazione improvvisata di concerti.




GIUSEPPE TARTINI fu violinista virtuoso, compositore, teorico e didatta, ma anche punto di riferimento culturale del mondo musicale europeo settecentesco. “Spericolata”, sarebbe stata definita in altri tempi la vita di Giuseppe Tartini. Nato a Pirano d’Istria l’8 aprile 1692, destinato dai genitori a una carriera ecclesiastica, anche lui come Antonio Vivaldi, è proprio nel Collegio dei Padri delle Scuole Pie di Capodistria che apprende i primi rudimenti nel violino. Spirito ribelle, deciso a non proseguire negli studi religiosi, viene avviato a quelli giuridici ai quali, però, preferisce, oltre che il violino, la spada, fino a diventare uno dei migliori spadaccini di Padova, dove si era trasferito. Nel corpus delle sue composizioni la produzione di brani a quattro per archi (due violini, viola e violoncello) ci è giunta in numero esiguo rispetto ad altre forme e si colloca nella tarda fase compositiva, probabilmente attorno agli anni '60-'70 del Settecento. I modelli tartiniani ebbero però un ruolo di rilievo nello sviluppo del linguaggio per archi e del successivo quartetto classico, mentre non va sottovalutato il fatto che le abitudini esecutive, il tipo di destinazione e di fruizione di questi generi ebbe una significativa influenza sullo sviluppo stilistico e formale della scrittura quartettistica. Nella cerchia intorno a Tartini la pratica del suonare a quattro è largamente testimoniata nelle riunioni musicali di dilettanti, come la padovana "Accademia degli Imperterriti". Anche la diffusione dello stile e delle musiche del maestro in tutta Europa attraverso i suoi allievi, la cosiddetta "Scuola delle Nazioni" - come venne chiamato il numeroso gruppo di musicisti che studiarono con Tartini - non furono estranee alla definizione di un nuovo linguaggio musicale che si venne consolidando a partire dagli anni '60 del Settecento nella produzione di Haydn e successivamente di Mozart. Accanto alle sonate a quattro, il catalogo delle composizioni di Tartini presenta molte sonate a violino e basso, sonate solistiche, sonate a tre e più di cento concerti per violino e orchestra, oltre a qualche concerto per altri strumenti come violoncello e flauto e ad alcuni brani di musica sacra.

La ricca produzione di concerti per violino e orchestra di Giuseppe Tartini è stata variamente indagata, ma scarsamente collocata in un contesto esecutivo specifico, anche per la mancanza di fonti documentarie in merito. Si hanno alcune notizie sulla destinazione di questa produzione musicale per le celebrazioni liturgiche della Basilica del Santo a Padova, presso cui Tartini ricoprì il ruolo di "Primo violino e capo di concerti" dal 1721 al 1770. Altre testimonianze e alcuni documenti recentemente emersi fanno riferimento all'attività di Tartini a Venezia e in particolare ai suoi contatti con l'Ospedale della Pietà. Presso il Conservatorio di Venezia è stato attuato un importante lavoro di catalogazione e riordino di un fondo di manoscritti musicali, rimanenza di un più ampio archivio dell'Ospedale, tra cui sono conservati i "libri parte", fascicoli che riportano le musiche eseguite dalle cantanti e dalle strumentiste, utilizzati per le esecuzioni musicali. Alcune delle "figlie di coro", ospiti degli ospedali, allevate da queste istituzioni e, una volta adulte, impiegate al servizio della musica prodotta dalle stesse, furono molto note all'epoca come cantanti e strumentiste virtuose, e risultano essere state le dirette destinatarie di vari concerti di Tartini.

Le Sonate a quattro di Giuseppe Tartini vennero eseguite con organico orchestrale già nel '700, come è testimoniato dalle parti staccate di diverse fonti manoscritte, che presentano più copie per ciascuno strumento. La stesura rivela un linguaggio curato e ricercato nella combinazione e nell'indipendenza delle voci, una scelta volutamente colta e impegnata nell'uso del contrappunto e nei riferimenti stilistici e formali ad uno stile "riservato".

Dai Concerti grossi di Corelli deriva l'articolazione del concerto solistico tartiniano, sempre suddiviso in tre movimenti, due veloci che incorniciano uno lento centrale. La derivazione corelliana - di organizzazione ma soprattutto di linguaggio strumentale - è particolarmente evidente nelle opere che risalgono al primo periodo, se si accoglie la tripartizione cronologica stabilita dallo studioso greco Minos Dounias, autore del miglior studio sui concerti di Tartini. Dounias definisce lo "spiegamento degli elementi sonori" come caratterizzante la fase iniziale dell'opera tartiniana: un gusto lussureggiante per il virtuosismo strumentale quasi fine a sé stesso trionfa negli episodi solistici, che sono di solito accompagnati soltanto dal basso continuo, in netto contrasto con gli episodi del Tutti, dove l'intero organico degli archi articola il materiale tematico che caratterizza il movimento. Chiare le derivazioni, ma altrettanto chiare le differenze con l'Opera Sesta di Corelli. Organico strumentale affidato esclusivamente agli archi; distinzione fra episodi affidati ai "Soli" ed episodi affidati al "Tutti" che ricalca la distinzione corelliana fra Concertino e Concerto grosso; periodare simmetrico nell'alternanza di questi due spessori sonori: queste le affinità del concerto tartiniano con il modello corelliano. L'esuberanza della parte solistica che predomina imperiosa su tutte le altre negli episodi solistici; il gusto per una differenziazione decisa degli episodi, nella cui alternanza prevale il principio del contrasto piuttosto che quello del logico "divenire": queste le caratteristiche fortemente individuanti già in questa fase iniziale della produzione tartiniana, quali si ritrovano ad esempio nel primo e nell'ultimo movimento del Concerto in mi minore D. 56. Ma la manifestazione più decisamente originale della fantasia tartiniana si ritrova nel movimento centrale di questo concerto, costruito su un cullante movimento in 12/8, e nel quale predomina assoluta la linea cantabile dello strumento solista. Qui veramente Tartini manifesta in maniera imperiosa l'originalità del suo stile: l'organizzazione dell'intero movimento non è più determinata dalla successione delle armonie che ne articolano la struttura, bensì dallo snodarsi della linea melodica del solista; lo strumento non viene più sfruttato a fini virtuosistici, bensì per rendere tutte le sottigliezze di una sinuosa melodia strumentale che trae le sue caratteristiche proprio dalla natura dello strumento per cui è stata concepita.

18 ottobre 2023, ore 19

I VIRTUOSI ITALIANI

FRANCESCO COMISSO maestro di concerto al violino

“PER LE MUSE PREDILETTE DI DON ANTONIO”

I concerti contenuti in questo particolare e prezioso programma, ci riportano all'attività che Vivaldi svolse all'Ospedale di Santa Maria della Visitazione o della Pietà, una delle quattro istituzioni veneziane riservate alle ragazze (orfane e figlie illegittime). Famosa, proprio alla Pietà, era l'attività musicale esplicata dalle cosiddette 'putte': guidate e istruite non solo dal maestro ma anche dalle più esperte tra loro, cantavano e suonavano nascoste dietro una grata che impediva loro di esser viste dal pubblico. Tra gli ascoltatori che accorrevano la domenica e negli altri giorni festivi per ascoltare i loro concerti, vi erano i non pochi privati cittadini che poi avrebbero sovvenzionato questa e le altre analoghe istituzioni con lasciti testamentari e donazioni. Il rapporto che Vivaldi ebbe con la Pietà iniziò nel 1703 e sarebbe durato per quasi tutto il resto della vita, seppur con diverse interruzioni e soprattutto con molti mutamenti riguardanti la natura dello stesso rapporto, dovendosi distinguere tra il servizio prestato come effettivo insegnante e direttore e quello come fornitore di composizioni da eseguire, sempre alla Pietà, occasionalmente anche sotto la propria direzione. All'incarico come insegnante di violino, accettato nel 1703 per uno stipendio annuo di sessanta ducati, farà seguito quello arrivato nel 1716 di "maestro de' concerti", funzione conservata probabilmente solo fino al 1723 anche se analogo ruolo gli sarà ancora riservato successivamente, tra il 1735 e il 1738. L'abilità di Vivaldi col violino - i contemporanei furono decisamente più pronti ad apprezzare le sue qualità come esecutore piuttosto che come compositore - è testimoniata sia dallo sviluppo della possibilità tecniche che si incontra nella sua musica sia dalla assoluta preponderanza di concerti solistici dedicati a questo strumento. Ma a ispirare queste composizioni, come pure quelle destinate ad altri strumenti, furono anche le più abili tra le 'putte' che frequentavano il "Pio Ospitale" della Pietà. Di alcune conosciamo il soprannome o il nome di battesimo: Chiara, Chiaretta, Teresa e Anna Maria, quest'ultima probabilmente la più famosa tra tutte. Viene così a trovare una possibile spiegazione l'annotazione "Per [la] Signora Chiara", che si legge in una copia manoscritta del Concerto per violino, archi e basso continuo RV 222 ritrovata a Venezia, annotazione di cui tuttavia è priva la partitura autografa oggi conservata nel Fondo Giordano.

Dopo il 1730, Vivaldi scoprì che con tante sue partiture pubblicate in circolazione stava diventando sempre più difficile interessare il pubblico a quelle più recenti. Gli venne quindi l'idea di offrire privatamente le sue partiture inedite ai suoi committenti per il loro uso personale. Fortunatamente gli studiosi di Vivaldi stanno ora riscoprendo queste opere in collezioni private o archiviate nelle biblioteche e quattro di questi concerti sono presenti nel concerto di questa sera.

Queste partiture sono creative, molto belle, tipiche delle successive composizioni concertanti di Vivaldi e i concerti selezionati sono di qualità estremamente elevata e premiano chi ha deciso di ascoltarli dal vivo, proprio nel luogo in cui sono stati concepiti. Un’attenzione particolare va sicuramente data ai movimenti lenti, espressivamente meditativi dei concerti RV 222, RV 273 e RV 208. 

Come si diceva prima Vivaldi smise di pubblicare concerti per violino intorno ai cinquant'anni, preferendo da allora in poi venderli singolarmente manoscritti a chiunque arrivasse con la giusta somma. Anche se questo presumibilmente migliorò le sue finanze personali, non fu di grande aiuto per la reputazione a lungo termine dei concerti coinvolti, poiché senza numeri d'opera, dediche o titoli, erano in fondo alla lista quando nel ventesimo secolo Vivaldi fu poco alla volta riscoperto.

Pertanto, un’intera parte dell’opera del compositore è stata a lungo sottovalutata, il che è un peccato perché rispetto all’energia concisa dei concerti pubblicati in precedenza queste opere sono più ricche, più meditative, forse semplicemente più belle. Ci sono anche prove dell’esperienza di Vivaldi nella musica vocale (praticamente inesistente all’epoca delle sue prime raccolte pubblicate), rilevabile in una nuova grazia della melodia e nella tendenza ad adottare alcuni dei manierismi tipici degli operisti napoletani alla moda. Il primo movimento di RV 273 ha un suono decisamente preclassico, mentre il secondo movimento mostra una concentrazione operistica di emozioni. 

Il Concerto per violino, archi e basso continuo RV 222, scritto nella tonalità di re maggiore, si apre con un brillante Allegro, all'interno del quale la parte destinata al solista si fa notare per il ripetuto uso di bicordi e per lo sfruttamento di una tessitura particolarmente acuta. Resta nella tonalità iniziale anche il movimento lento, un Andante di carattere piuttosto tranquillo dove il violino può mettere adeguatamente in risalto le proprie qualità espressive, mentre il successivo Allegro si fa notare non solo per la rapidità richiesta al violinista, soprattutto nel primo dei propri interventi solistici, ma anche per quelle brevi incursioni nel modo minore grazie alle quali la scrittura orchestrale di Vivaldi dimostra una sensibilità particolarmente sviluppata e anticipatrice di periodi successivi.

Con ogni probabilità il titolo «Grosso Mogul», che compare nel manoscritto di Schwerin (ma non nella partitura autografa di Torino) del Concerto RV 208, si riferisce a quello che era ritenuto il più celebre diamante dell'epoca e che doveva il suo nome al fatto di appartenere al tesoro del Gran Mogol (l'appellativo assunto dai sovrani dell'omonimo impero dell'India orientale). Attraverso l'allusione a un Oriente favoloso, il titolo suggestivo, benché di dubbia autenticità, mira dunque a sottolineare la qualità e il virtuosismo scintillante del lavoro: un concerto di ampio formato che presuppone inoltre l'esecuzione di due cadenze nei movimenti mossi. Due cadenze compaiono in effetti nei manoscritti di Schwerin e Cividale di Friuli e potrebbero essere di Vivaldi, mentre l'assenza di cadenze nell'autografo si spiega forse col fatto che il compositore poteva anche evitare di scrivere per esteso le cadenze che lui stesso avrebbe improvvisato al momento dell'esecuzione. Il lavoro, che costituisce uno degli esempi più emblematici del concerto virtuosistico vivaldiano all'inizio degli anni Dieci, fu trascritto per clavicembalo da Johann Sebastian Bach nel 1713-14 (BWV594).

Il ritornello con cui si apre l'Allegro iniziale si basa in larga misura su squillanti motivi di fanfara, ma contiene anche sezioni con patetiche inflessioni minori. Nelle successive apparizioni il ritornello si alterna a tre episodi solistici dove Vivaldi incomincia a sciorinare i tratti di una scrittura di elevato virtuosismo, con doppie corde, passaggi di agilità nel registro sovracuto, diversi moduli di arpeggio e sospirose figure cromatiche, terzine legate. Il quarto episodio echeggia l'attacco del secondo e prepara la riaffermazione della tonalità d'impianto, culminando in una cadenza. Un breve ritornello conclude il movimento.

Il Grave Recitativo per il solista accompagnato dal basso è un vero pezzo da maestro: qui Vivaldi traslittera l'archetipo vocale in un arabesco splendidamente cesellato e ornamentato, sontuoso per invenzione e virtuosismo, dove il senso di fluente libertà improvvisativa è peraltro ottenuto grazie a un progetto accuratamente calcolato in ogni dettaglio della condotta melodica, ritmica, armonica nonché del fraseggio e dell'articolazione.

L'Allegro finale richiama la scrittura brillante di quello iniziale. Il ritornello dai cavalcanti motivi di arpeggio serve per incorniciare le evoluzioni virtuosistiche del solista nei tre episodi. Nel primo e nel terzo episodio si profila una certa varietà di figure, laddove nel secondo, che culmina in un lungo passaggio su pedale del basso, prevale il gioco della rapidità e dell'agilità. Al quarto ritornello segue una cadenza molto virtuosistica del solista; il concerto si conclude quindi con una cornice di ritornello.


Il «concerto ripieno», di cui fanno parte gli RV 149 e 138, è un concerto per orchestra a quattro parti (due violini, viola e basso: cioè, il cosiddetto «ripieno»), senza solisti. Coltivato tra la fine del Seicento e i primi decenni del secolo successivo da autori come Torelli, Albinoni, Dall'Abaco, il concerto per orchestra godeva di particolare fortuna a Venezia. Vivaldi scrisse, per la massima parte dopo il 1720, una quarantina di «concerti ripieni», con una sola eccezione rimasti manoscritti vivente l'autore e che nel complesso rappresentano uno dei settori più affascinanti della sua vastissima produzione strumentale.

Vivaldi concepisce il concerto per orchestra come un genere particolarmente congeniale alla sperimentazione: in effetti l'assenza dell'elemento solistico, che presuppone un virtuosismo in sé dispersivo e centrifugo cui dare adito in appositi episodi, consente all'autore di concentrale l'attenzione sull'aspetto propriamente compositivo.

I concerti per orchestra non erano scritti soltanto per l'orchestra della Pietà ma soddisfavano anche le richieste di una clientela internazionale. La raccolta dei dodici concerti di Parigi fu probabilmente assemblata nel corso degli anni Venti per un committente transalpino e rappresenta un campionario delle varie accezioni e sfumature del «concerto ripieno» vivaldiano.

La Sinfonia per archi in sol maggiore RV 149 denominata “IL CHORO DELLE MUSE” la troviamo nel manoscritto dei Concerti con molti Instrumenti suonati dalle Figlie del Pio Ospedale della Pietà avanti Sua Altezza Reale il Serenìssimo Federico Chrìstiano... (donato al Principe come ricordo). Una pagina brillante, che ben si addice a quell'occasione festosa e da cui traspare una vitalità ancora assolutamente integra, nonostante l'età del compositore.

L'Allegro iniziale, mancando il solista, è giocato interamente sui diversi spessori dell'ensemble orchestrale in una continua variazione delle dinamicità sonore. Di carattere "spiritoso" è invece il secondo tempo, un Andante costruito sulla divisione in due dei violini che da una parte, con l'archetto, cantano la melodia e dall'altra accompagnano in pizzicato. La chiusura è affidata ancora ad un Allegro travolgente, in una conclusione quasi "teatrale" da gran finale prima della calata del sipario.



1 novembre 2023, ore 19

I VIRTUOSI ITALIANI

ALBERTO MARTINI maestro di concerto al violino

“I CONCERTI DELLA NATURA E DELLE PASSIONI UMANE” 

Il programma di questa serata comprende quella straordinaria serie di concerti per violino di Vivaldi concepiti come medaglioni di affetti, di momenti e situazioni dettate dallo scorrere del tempo dell’anno, di effetti specifici della natura e nello specifico al gruppo risalente intorno al 1720 che comprende anche «Il sospetto» RV 199 e «Il riposo» RV 270.


IL PIACERE

Inserito nella celebre raccolta op.8 del 1725, Il cimento dell’armonia e dell’invenzione (quella che si apre con Le Quattro Stagioni) è il Concerto RV 180 in do Maggiore sottotitolato “IL PIACERE”. Fedele all’intento programmatico dell’intero volume, Vivaldi dona anche a questa composizione una doppia lettura, musicale e “rappresentativa”. Un Allegro spedito e simmetrico, votato alla ricerca delle “delizie” sonore (con il raggiante protagonismo del violino solista), lascia poi spazio, in un secondo movimento Largo, ad una più intima riflessione sulla “precarietà” del piacere e il tempo di Siciliana associa la linea cromatica discendente all’”affetto” barocco del lamento. Ma la consapevolezza della fragilità umana non esclude la possibilità di godere delle bellezze del mondo, ed ecco quindi rinvigorirsi la volontà di continuare - in un brioso caleidoscopio di note (Allegro) - quella magica esplorazione che si chiama vita.

Vita che per il compositore veneziano si fa sempre più amara con il passare degli anni. Il 29 agosto 1739, Charles de Brosses, a Venezia (Lettres historiques et critiques sur l’Italie) così ne commenta l’incontro: “Vivaldi mi si è fatto amico intimo per vendermi i suoi Concerti ad un prezzo molto alto. In parte ci è riuscito, così come anch’io sono riuscito nel mio intento che era di ascoltarlo e di avere sovente con lui piacevoli intrattenimenti musicali: è un vecchio con una prodigiosa smania di comporre. L’ho sentito io stesso vantarsi di poter comporre un Concerto, completo in tutte le sue parti, più rapidamente di quanto impiegherebbe un copista a trascriverlo. Ho scoperto, con grande meraviglia, che non gode di tutta la stima che meriterebbe in questo Paese dove tutto deve essere moda, dove si ascoltano le sue opere da troppo tempo e dove la musica dell’anno prima non fa più cassetta”.


L’INQUIETUDINE

In questo concerto appare impressionante la capacità di Vivaldi di evocare l’affetto in questione grazie a una gestualità compositiva concentrata, a un’estrema economia tematica e al principio della ripetizione melodica e ritmica. Tutto, insomma, concorre a imprimere al dettato musicale una tinta unitaria in funzione rappresentativa: l’accumulo di tensione emozionale prodotto dalla concitata e incessante pulsazione ritmica, la segmentazione e i continui cambi di direzione delle linee melodiche, le studiate asimmetrie della struttura sintattica.

La forma dell’Allegro molto con cui s’apre il concerto è assai concisa e, per così dire, compressa in una specie di tour de force. Il ritornello orchestrale, che si svolge interamente su pedali articolati di tonica e di dominante, è costituito da un movimento di arpeggi senza requie. Integrati con le figure e il movimento del ritornello sono i due episodi solistici la cui scrittura insiste sulla ravvicinata successione di ampi intervalli e salti di registro e su una condotta melodica frammentata e instabile. Il secondo episodio si ricollega all’attacco del primo, mentre tocca inopinatamente alla dinamica modulante del ritornello di chiusura il compimento della struttura tonale del brano. Assai concisa è anche la forma del Largo, dove una sezione orchestrale basata sulla ripetizione di figure in ritmo puntato e rapide volatine ascendenti e discendenti comprende una breve sortita cantabile del solista accompagnato dal ritmo puntato delle parti di violini e viola. Sia nella specificità dei motivi tematici sia nell’insieme, il Largo mostra una notevole affinità con i movimenti iniziali dei concerti intitolati «La notte» (RV 104/439 e RV 501); affinità tanto più significativa se si considera che questi ultimi sono tra i lavori vivaldiani più visionari, cupi e angoscianti. Le figure in ritmo puntato e gli arpeggi si ripresentano nel ritornello dell’Allegro finale che nel corso del movimento conosce un processo di arricchimento e di progressiva intensificazione ritmica. In particolare, il terzo ritornello è pressoché identico a una sezione orchestrale che s’incontra nella tempesta del finale dell’«Estate» RV 315, ma anche i tre episodi solistici sono connotati dalla gestualità virtuosistica e dal moto perpetuo dì moduli figurali, arpeggi e scale propri di quella come delle altre tempeste vivaldiane. Dopo il crescendo virtuosistico dell’ultimo episodio conclude il Concerto il ritornello suggellato da una nuova sezione d’epilogo.


LA TEMPESTA DI MARE

Se è indubbio che la straordinaria e imperitura fortuna della raccolta de Il Cimento dell’Armonia e dell’Inventione sia dovuta in maniera determinante alla presenza al suo interno dei celebri Concerti de “Le Stagioni”, è altrettanto vero che l’intera Opera Ottava costituisce un’importante pietra miliare nella carriera di Vivaldi, rappresentando il conseguimento della sua piena maturità nel campo della scrittura concertistica.

Apparsa ad Amsterdam presso il grande editore Le Cene, nel 1725, la raccolta è dedicata al conte Wenzel von Morzin, un cugino del futuro patron di Haydn, di cui Vivaldi era maestro dei Concerti “in Italia” (probabilmente quindi con il solo compito di inviare occasionalmente al conte dei nuovi lavori).

I dodici Concerti sono divisi equamente in due volumi: nel primo, oltre le già citate quattro “stagioni” compaiono La tempesta di mare (n. 5) e Il piacere (n. 6); nel secondo invece troviamo 5 Concerti senza titolo e La caccia (n. 10).

Come si può notare quindi il primo volume ha un chiaro aspetto unitario che nasce dall’impiego esclusivo di Concerti caratterizzati da titoli; è lecito supporre che il veneziano strizzasse l’occhio anche all’immagine commerciale confidando sulla maggiore vendibilità delle musiche “a programma”. E non è un caso che qualche anno prima, il critico musicale Francois Raguenet, così elogiasse il cimento degli “italiani” in questo genere: “Se bisogna fare una Sinfonia che esprima la Tempesta e il furore, essi [gli italiani] ne imprimono cosi bene il carattere, che spesso la realtà non agisce con altrettanta forza sull’animo; tutto è così vivo, cosi acuto e penetrante, così pieno d’impeto, cosi sconvolgente che l’immaginazione, i sensi, l’anima, il corpo stesso sono trascinati in un unico slancio; si è risucchiati senza possibilità di scampo dalla rapidità di questi movimenti; una Sinfonia di furie agita l’anima, la sconvolge e la scuote nel profondo; il suonatore di violino che l’esegue non può impedirsi di esserne travolto e preso da un furore, tormenta il suo violino, il suo corpo, non è più padrone di se stesso, si agita come un posseduto e non saprebbe fare altrimenti” [Parallèle des Italiens et des Francais en ce qui regarde la musique, Paris, 1702].

La descrizione sembra calzare a pennello al lavoro vivaldiano: il Concerto si apre in un turbinio di note che si avvicendano in “crescendo” vorticosi e illusori “diminuendo”. Contrariamente a quello che ci si potrebbe aspettare, Vivaldi non sceglie una tonalità minore per la descrizione dell’evento “drammatico” ma lo affida all’impegnativo e pragmatico mi bemolle maggiore: come a dire una tempesta che, più che per le sue conseguenze sugli uomini, viene vista nella sua stupefacente esplosione di elementi naturali. Lo slesso gusto che si ritrova nei quadri veneti di tempeste di Peter Mulier detto “Cavalier Tempesta” prima e di Marco Ricci e Antonio Marini poi.

Il primo tempo si conclude sulla dominante “invitando” in questo modo il secondo a subentrare immediatamente. Il Largo si presta ad essere identificabile come una sorta di bonaccia momentanea (“Navicella in calma” titola il compositore bolognese Lorenzo Gaetano Zavateri un movimento analogo nel suo Concerto a Tempesta di mare del 1735); potremmo sostanzialmente immaginarci una prospettiva scenica con un personaggio naufrago in primo piano - il violino principale, e lo sciabordio lento delle onde affidato agli archi che accompagnano.

Anche questo movimento, evitando una decisa conclusione cadenzale, “invita” a sua volta il finale: un Presto altalenante fra gli echi della movimentata burrasca e il lento ristabilirsi dell’equilibrio fra cielo e terra.


IL FAVORITO

Il titolo «Il favorito» manifesta la predilezione per il Concerto RV 277 da parte dell’autore stesso o forse dell’imperatore Carlo VI (pubblicato nell’op. XI del 1729, il lavoro è infatti presente anche nella raccolta manoscritta La cetra offerta da Vivaldi al sovrano un anno prima). Si tratta dunque di un titolo impegnativo, ma che trova puntuale riscontro nell’eccellenza dell’invenzione e nella fattura preziosa del concerto. Del resto, la perfezione formale, l’ampio respiro, la superba e introspettiva eloquenza, la ricchezza del linguaggio cromatico, l’aristocratica intensità espressiva e l’elaborazione compositiva implicano un registro retorico particolarmente elevato; tanto che, in qualche modo, il lavoro si pone come una sorta di idealizzata quintessenza del più maturo concerto vivaldiano. E questo si ravvisa anche nel disegno raffinatissimo e lussureggiante della parte solistica, improntata al virtuosismo lirico e cantabile proprio dello stile vivaldiano a partire dalla metà degli anni Venti.

Nell’Allegro d’apertura, al tratto austero e perfino spigoloso dei ritornelli orchestrali connotato da stentoree figure d’arpeggio e scale imperiose, fa appunto riscontro il virtuosismo lirico dei quattro episodi solistici dove la linea del violino principale conosce momenti di autentico abbandono cantabile. In particolare, l’ultimo episodio incomincia con l’elaborazione di un motivo cromatico del ritornello, quindi ripropone, dopo l’interpolazione di una sezione orchestrale di ritornello, l’attacco del primo episodio con effetto di ripresa. Nel folgorante Andante il ritornello orchestrale è ridotto a semplici accordi scanditi dalle parti di violino e viola per incorniciare, sostenere e inframmezzare due ampi episodi solistici, il secondo dei quali incomincia come variazione e parafrasi del primo. Nel movimento, senza basso, il lirico dipanarsi della linea solistica assume i tratti di un’incantata meditazione divagante che pare formalizzare la naturalezza sorgiva di un’improvvisazione. Anche nell’Allegro finale i ritornelli orchestrali dove compaiono motivi di caccia, sincopi e cromatismi, tendono a differenziarsi dalla scrittura più mossa e variegata dei quattro episodi solistici dove s’alternano passi di bravura e frasi più liriche. Il primo episodio trae spunto direttamente dalla testa del ritornello; l’ultimo dalla sezione cromatica e sincopata dello stesso ritornello.

CONCERTO ALLA RUSTICA

Questo concerto, di cui G. F. Malipiero ha curato la realizzazione del basso, è, nella sua brevità, una delle opere più singolari e interessanti di Vivaldi.

A proposito di questa composizione riportiamo quanto ne scrive Mario Rinaldi nella sua biografia vivaldiana: «Nella nota apposta alla partitura del concerto Alla Rustica il Casella (...) ricorda che tali pagine si trovano, segnate con il numero 14, nel volume terzo delle opere sacre, e precisamente nella Raccolta Renzo Giordano, custodita nella Biblioteca Nazionale di Torino. La composizione, fatto piuttosto raro nella produzione del «Prete rosso», non comporta parte solistica. Nulla è stato toccato dal trascrittore nella partitura propriamente detta; l’unica aggiunta è stata quella del cembalo la cui parte, secondo l’uso dell’epoca, non è realizzata nell’originale. Il nome al concerto è dato, naturalmente, dall’andamento del primo tempo. Si tratta di una danza molto briosa che, dopo uno sviluppo abbastanza ampio, passa rapidamente in minore.

Interessante è notare come, alla metà del tempo, il movimento principale passi dai primi ai secondi violini, rafforzati dalle viole. Il tempo centrale ha un carattere maestoso reso con pochissimi elementi; alle note solitarie e solenni del quartetto risponde il cembalo con gravità: tutto è molto bello, riuscito e realizzato con un numero limitatissimo di battute (se ne contano appena 16). L’«Allegro» finale è chiaro e trasparente, salvo quella «serpentina» di biscrome che serve come di ornamento. Anche questo tempo sembra voglia giustificare il titolo dell’opera e chiude la breve composizione in piena festosità».


15 novembre 2023, ore 19

I VIRTUOSI ITALIANI

ALBERTO MARTINI maestro di concerto al violino

“LA STRAVAGANZA” OPERA QUARTA - PARTE PRIMA

“La stravaganza” è il titolo di una raccolta di dodici concerti composti tra il 1712 e il 1713, pubblicati per la prima volta nel 1716 da Estienne Roger ad Amsterdam, come opus 4, e dedicati a un nobile veneziano, Vettor Delfino. Nell'intestazione originale, la dedica riporta il seguente testo:

«Concerti consacrati a Sua Eccellenza il Signor Vettor Delfino, nobile veneto, da Don Antonio Vivaldi, Musico di Violino, e Maestro de Concerti del Pio Ospitale della Pietà di Venetia.»

I dodici concerti op. 4 conosciuti con il nome di “La Stravaganza” furono citati per la prima volta come raccolta di “Concerti a Quattro” nella Prefazione de “L’Estro Armonico” op. 3. La loro pubblicazione dovette attendere fino al 1716, quando Estienne Roger li pubblicò ad Amsterdam in due volumi di sei concerti ciascuno. Tuttavia, a differenza dell'annuncio originale, “La Stravaganza” è più di una raccolta di concerti per violino solo con accompagnamento d'archi: in cinque concerti il solista è affiancato da un secondo violino solista o addirittura da un violoncello solista (Concerto n. 7).

Le numerose ristampe de “La Stravaganza” testimoniano la sua popolarità e ampia diffusione fino agli anni Trenta del Settecento. Oltre alle stampe sopravvissute, esiste un corpus significativo di fonti manoscritte contenenti versioni alternative di sette concerti. Alcuni di questi manoscritti provengono dalla biblioteca musicale di Johann Georg Pisendel.

La raccolta ha la stessa struttura delle altre due che hanno dato un'impronta fondamentale alla produzione vivaldiana. Si tratta delle celeberrime “Il Cimento dell’Armonia e dell’Inventione” Opera 8 e “L’Estro Armonico” Opera 3, entrambe più famose della presente opera). Come nelle altre due raccolte, ciascuno dei dodici concerti della Stravaganza dura una decina di minuti. 


24 novembre 2023, ore 19

I VIRTUOSI ITALIANI

ANDRZEJ KOSENDIAK direttore

PAOLO TAGLIAMENTO violino

Sturm und Drang

A Carl Philipp Emanuel Bach secondogenito di Johann Sebastian, tenuto a battesimo da Telemann di cui sarebbe poi stato il successore (1767) ad Amburgo, si attribuiscono venti sinfonie. Al n. 182 di tale catalogo figurano le Sei Sinfonie composte nel 1773 per il barone Gottfried van Swieten. Figlio di un famoso medico Gerard (1700 - 1772) che fra le mansioni ricoperte ebbe anche quella di protomedico dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria, il barone van Swieten, aveva presto abbandonato le scienze mediche per seguire la carriera diplomatica. Ottimo dilettante di musica, quando prese stanza definitiva a Vienna (1777), abbandonando la carriera diplomatica, divenne il principale artefice della vita musicale della capitale imperiale: promosse la costituzione di una “Società dei Cavalieri” per la valorizzazione della musica antica, si impegnò nel diffondere la musica di Händel (fu il van Swieten a commissionare a Mozart la “revisione” di quattro capolavori händeliani, fra cui il Messia) e di Bach, indusse Haydn a comporre i due grandi oratori Die Schöpfung e Die Jahreszeiten (suoi ne sono i libretti) e protesse il giovane Beethoven (che gli dedicò la Prima Sinfonia).

Durante il soggiorno berlinese, Gottfried van Swieten era entrato in contatto con Carl Philipp Emanuel Bach, allora al servizio di Federico II di Prussia: gli commissionò le sei Sinfonie di cui si diceva e più tardi, nel 1783, ricevette dal compositore l’omaggio della dedica d’una raccolta (la terza) di sei Sonate per cembalo. Le Sinfonie rimasero inedite per lungo tempo e solamente nel 1937 vide la luce quella in si minore a cura di Ernst Fritz Schmid nel Nagels Musik-Archiv dell’editore Nagel di Celle. Sembra che van Swieten avesse raccomandato a Carl Philipp Emanuel di lasciare libero sfogo alla propria fantasia e di non preoccuparsi delle difficoltà tecniche che la sua scrittura avrebbe potuto comportare. La Sinfonia in si minore è in tre movimenti: un elegiaco Allegretto, un pacato Larghetto e un travolgente finale Presto.

Nel 1775 Wofgang Amadeus Mozart compose a Salisburgo cinque Concerti per violino e orchestra: questo in la maggiore (K. 219), concluso il 20 dicembre, è l’ultimo (col nome di Mozart esistono anche altri due Concerti per violino, di attribuzione e data discusse). Mozart, come suo padre Leopold, era da tempo al servizio del Principe Arcivescovo di Salisburgo in qualità di musicista dell’orchestra (al clavicembalo, all’organo, poi anche al violino) e di compositore per le cerimonie sacre e le feste di corte.

Nel 1781 un invito dell’elettore di Baviera, invito che farà nascere il primo dei capolavori compiuti del teatro di Mozart (Idomeneo), fu un’altra delle ormai troppe occasioni di scontro tra Colloredo e Mozart, che il 9 maggio 1781 fu insultato e, con sua gioia, cacciato da palazzo e da Salisburgo. Era questa la conclusione ritardata dei malintesi cominciati poco prima dell’anno in cui Mozart compose i suoi Concerti per violino.

Oltre al clavicembalo e all’organo nei quali eccelleva con genio, Mozart nell’infanzia aveva studiato anche il violino, perfezionandone poi la tecnica nell’adolescenza e nel 1773, a diciassette anni, improvvisava magistralmente in pubblico. Non sappiamo a quale necessità pratica o mondana dell’orchestra di corte si debba il ciclo dei cinque Concerti del 1775 composti nel giro di pochi mesi (né sappiamo se siano stati concepiti davvero come un ciclo o se siano state cinque occasioni differenti). È probabile che uno dei destinatari sia stato Antonio Brunetti, il primo violino dell’orchestra, col quale Mozart strinse proprio in quell’anno una buona amicizia, superati alcuni segni di gelosa diffidenza da parte dell’italiano. Brunetti aveva una grande ammirazione per il giovane compositore che egli ammirava anche come violinista. 

Nella sua costruzione questo Concerto presenta qualche libertà formale, nell’invenzione e nei rapporti, di carattere quasi sperimentale, come accade spesso nei lavori del giovane Mozart.

L’introduzione del primo movimento è eccezionalmente estesa, con due temi. Uno è ritmato e danzante, e ad esso risponde il secondo con elegante ironia: nel giro di poche battute l’incrocio dei due temi va verso una cadenza che prepara la vera Esposizione sinfonica. Ma ci sorprende l’apparizione inattesa del solista con un breve Adagio lirico, disteso sul sussurro degli archi. Questa strana parentesi sembra essere un pensiero improvviso di Mozart o una sua dedica speciale a qualcuno. Poi si avvia il primo movimento con un tema energico ed affermativo (l’indicazione espressiva di Mozart è un bizzarro Allegro aperto, cioè schietto, ardito), accompagnato dal disegno danzante dei violini, con il quale si era iniziata l’Introduzione. Il secondo disegno di questa poi diventa secondo soggetto principale del movimento. L’elaborazione dello sviluppo, con qualche modulazione regolare (mi maggiore, dominante, e do diesis minore) soffre di qualche squilibrio delle proporzioni.

L’Adagio è un’espansione melodica di eccezionale bellezza, che il solista canta e decora senza che mai, neppure in una battuta, si indeboliscano l’intensità e la concentrazione del sentimento. Solo a tratti la calma contemplativa del canto è turbata da una segreta agitazione.

Con garbata decisione il solista suggerisce l’avvio del Minuetto, che l’orchestra accoglie con calore. Molto originale è l’espediente di introdurre in questo terzo movimento segmenti tematici dal primo. Una nuova sorpresa ci attende con il bellissimo Trio, Allegro in la minore, una specie di mascherata fantastica di tutti gli strumentisti, in abiti turchi o zigani. Era un tipo di esotismo allora di moda (spesso presente anche in Haydn), ma qui l’idea ha una sua spavalderia insolita e irresistibile. Dopo la ripresa del Minuetto il Concerto con sorridente eleganza si conclude con i due segmenti con i quali si era iniziato. 

Se c’è un autore al quale il nostro immaginario culturale lega una creatività solare e ricca di fine senso dell’humour, questo è sicuramente Franz Joseph Haydn. Eppure, l’immagine bonaria e non del tutto esatta di padre della Sinfonia che la storia ha unito al suo nome va arricchita di nuove prospettive: da grande autore quale fu, Haydn toccò molte delle corde espressive che la cultura dell’epoca gli mise a disposizione. Non ultimo lo Sturm una Drang (Tempesta e assalto) che verso la fine degli anni ‘60 del Settecento caratterizzò con punte di tensione drammatica l’espressione artistica nell’Europa settentrionale. L’estrosità cupa, la violenta reazione alla malinconia e all’abbattimento provocato dalla percezione di una dimensione umana in perenne ritardo sulla tensione ideale, sono sfaccettature “irrazionali” del secolo dei Lumi che hanno venato, anche se in chiave minoritaria, l’arte musicale del secondo Settecento.

Haydn trasfonde questa corrente culturale nel suo sinfonismo sperimentandola almeno fino al 1773. Riguardo alla Sinfonia in fa minore n. 49, composta nel 1768, si è spesso scritto che nell’opera questo disagio espressivo si colleghi a una riflessione sui misteri religiosi. La cosa rimane però dubbia: il “titolo” La Passione non fu dato alla Sinfonia dal compositore ma, come accadeva spesso, dal suo editore che mirava a distinguere opera da opera per una migliore commercializzazione del prodotto. 

La seriosità con cui inizia il primo movimento, Adagio, è comunque tipico dei lavori della produzione sacra di Haydn. Il motivo doloroso, che insiste sul semitono, ha natura dialogante ma sembra non subire evoluzioni ed è immerso in un’atmosfera scura e statica che caratterizza tutto il brano.

Il secondo movimento, Allegro di molto, è senza dubbio quello più “appassionato” della composizione: il motivo d’apertura sorge con cipiglio da un tessuto sincopato, utilizzando gli aspetti di un linguaggio drammatico (contrasti dinamici e sincopi producono un tessuto sonoro molto nervoso) reperibile, per esempio, anche nella produzione di Mozart. Colpisce di questo movimento, talvolta accompagnato da armonie insolite, la lunga sezione dello sviluppo, momento in cui il materiale precedentemente esposto viene “problematizzato” e sfruttato al meglio delle sue possibilità combinatone. Ciò che però spiazza l’ascoltatore è il ritorno del tema principale in posizione totalmente inaspettata (si faccia attenzione al senso di sorpresa che si proverà).

Il Minuetto comincia con lo stesso motivo dell’Allegro di molto ma produce un momentaneo rasserenamento dell’atmosfera, soprattutto nel Trio dove compare per la prima volta una tonalità di modo maggiore.

Il Presto finale è caratterizzato da un unico tema, come accade spesso nei finali sinfonici e cameristici di Haydn, e le sue evoluzioni sono messe finemente in relazione con i temi dei movimenti precedenti. La tensione è qui creata dall’estrema concentrazione del materiale, altro mezzo che crea un effetto drammatico per via di una indotta percezione di compressione “spaziale” fra i suoni.

Non c’è però abbattimento in questa musica, né rinuncia: seppur tradotta dalla nostra esperienza di ascoltatori come una partitura “tragica”, l’arte navigata e l’impareggiabile artigianato di Haydn ci danno un raro esempio di “humour nero” il cui fine principale è comunque stupire, stimolare la nostra intelligenza con novità interessanti.

29 novembre 2023, ore 19

Alberto Martini maestro di concerto al violino

Federico Toffano violoncello solista

Francesco Ferrarini violoncello solista

I CONCERTI PER VIOLONCELLO DI ANTONIO VIVALDI - PARTE PRIMA

I passaggi per violoncello solo sono antichi quasi quanto il genere del concerto stesso, ma nei primi concerti questi brevi voli solisti sono decorativi piuttosto che strutturalmente significativi, e il concerto propriamente “per” violoncello dovette aspettare per emergere finché Vivaldi non scrisse i primi esempi conosciuti. all'inizio del XVIII secolo. Sebbene lo strumento principale del compositore fosse il violino, per il quale deve aver scritto i suoi primi concerti da solista, i primi concerti databili sopravvissuti alla sua penna sono, stranamente, quelli per violoncello acquistati in manoscritto da un musicista tedesco in visita, Franz Homeck, nell’inverno del 1708-1709. Molto probabilmente, questi furono scritti per le musiciste dell'Ospedale della Pietà, l'istituto veneziano per trovatelli che Vivaldi prestò a intermittenza come insegnante di violino o direttore di musica strumentale dal 1703 fino alla sua morte nel 1741. Vivaldi scrisse altri concerti per violoncello per Pietà nel periodo 1723-1729, quando la mantenne rifornita con apposita convenzione di due concerti al mese, e ancora tra il 1735 e il 1738, quando ricoprì nuovamente il titolo di maestro dei concerti. Conosciamo i nomi di cinque violoncellisti attivi alla Pietà negli anni Trenta del Settecento: Claudia, Santina, Teresa, Tonina e Veneranda.

Evidentemente la Pietà condivideva in quel periodo l'entusiasmo europeo per lo strumento, che si riflette nella pubblicazione di sei sonate per violoncello di Vivaldi a Parigi intorno al 1740. È importante tenere presente, tuttavia, che nel corso della sua carriera il compositore vendette opere manoscritte a innumerevoli clienti e mecenati diversi. Questa attività corre parallela alla fornitura di opere alla Pietà e prosegue con ancora maggiore intensità quando il suo legame con l'istituzione viene temporaneamente interrotto. Per i concerti solistici di Vivaldi che utilizzano strumenti comuni come il violino, il violoncello o il flauto, spesso non è possibile stabilire, sulla base dell’evidenza delle fonti, quale fosse la destinazione originaria. A ciò va aggiunto il fattore complicante che Vivaldi conservava le sue composizioni in un archivio personale (la base della collezione odierna a Torino) ed era quindi sempre in grado di “ripubblicare” la sua musica, con o senza modifiche, per nuovi clienti. I concerti per violoncello solo di Vivaldi sono 28 (escluso il falso RV415 ma inclusi due concerti tardivi, RV787 e RV788, ineseguibili a causa della loro incompleta conservazione). Dopo i concerti per violino, che contano oltre 200, e i concerti per fagotto, che contano 39, questo è il più grande gruppo di concerti solistici della sua opera.

Per l'epoca è davvero notevole, poiché sebbene i concerti per violoncello coevi di Leo, Porpora, Tartini, Vandini, Chelleri e diversi altri esistano in piccole quantità, non c'è nulla nel Settecento che li eguagli sia in quantità sia, fino ad Haydn, in qualità. Vivaldi, che padroneggiava la viola d'amore e probabilmente anche la viola all'inglese, probabilmente aveva una conoscenza più che discreta del violoncello. In ogni caso, ne comprendeva profondamente la “anima” – il suo genio nell’esprimere una melodia cantata (spesso di umore malinconico) e la sua pari capacità di passaggi abbaglianti. Sfruttò con entusiasmo la sua capacità di agire, in rapida successione, come uno strumento nel registro “tenore” (equivalente a un violino che suona un'ottava più bassa), come uno strumento che suona la linea di basso in forma elaborata e come un basso robusto e disadorno. . Ha anche approfittato della sua capacità, spostandosi sulle corde o spostando bruscamente la posizione della mano, per eseguire ampi balzi - e non c'è nessuno come Vivaldi in grado di far emergere la potenza espressiva di ampi intervalli. Per gli studiosi appassionati della sua musica c'è l'ulteriore interesse che i concerti per violoncello siano rappresentati sia all'inizio che alla fine della sua carriera, formando collettivamente una cronaca del suo stile in evoluzione.

L’RV 419, in la minore, altra opera molto matura, nasconde nel primo movimento un riferimento al contenuto tematico dell’aria di Vivaldi “Agitatu infido flatu”. da Juditha Triumphans (1716); nell'oratorio le lente discese cromatiche dei violini e gli sbalzi cromatici degli accordi illustrano i venti ululanti che colpiscono una rondine che cerca invano di seguire una rotta diritta verso la sua destinazione. Il suo movimento lento ritorna alla familiare partitura della sonata, ma nel finale è in serbo una sorpresa. Fu lo stesso Vivaldi ad aprire la strada all'uso della forma variazione nei finali dei concerti (un primo esempio è l'ultimo movimento del concerto per flauto RV 437), e qui troviamo un esemplare particolarmente sofisticato modellato sulla passacaille en rondeau francese. L'idea alla base di questa miscela di variazione e forma di rondò è che lo stesso breve tema serve, se ripetuto letteralmente, come ritornello e, se elaborato, come base per una serie di variazioni. Nel movimento di Vivaldi il ritornello è seguito da un gruppo di tre variazioni prima del ritorno; seguono tre ulteriori variazioni, l'ultima delle quali si prolunga con una piccola ripresa per segnalare la chiusura della parte solistica, e il ritornello conclude debitamente il movimento.

Il Concerto in do minore per violoncello RV 401 è evidente testimonianza di come il musicista ha impostato e risolto il problema della composizione per tale strumento solista e il suo rapporto con l'insieme orchestrale gettando le basi della letteratura successiva. Qui, come nelle composizioni analoghe per violino, si attua una struttura ampiamente dialogica e le zone solistiche acquistano indubbio valore virtuosistico conseguentemente alle proprietà foniche e tecniche dello strumento. Nell'Adagio centrale si dà invece libero corso alla tipica cantabilità del violoncello, caratterizzando l'orchestra con disegni contrastanti e drammaticamente funzionali.

Un posto tutto particolare tra i concerti vivaldiani occupa quello in sol minore per due violoncelli, d'incerta datazione (come avviene per la più parte delle opere del Prete Rosso conservateci in forma manoscritta), ma, secondo il Kolneder, non anteriore agli anni 1720, attorno ai quali la tecnica violoncellistica doveva compiere rapidi progressi sotto l'impulso di alcuni virtuosi di scuola bolognese, tra i quali il celebrato Giuseppe Jacchini. Nel suo Concerto per due violoncelli, Vivaldi parte con fiducia baldanzosa alla conquista dell'agilità e del registro tenorile dei due per allora infrequenti strumenti concertanti. La scrittura si avvale, anche qui, di sommari effetti polifonici d'un gusto decorativo, alternati, come nel finale, a vigorosi unisoni.

Il concerto si apre con un tema ritmicamente vigoroso dei due violoncelli, cui segue un contrappunto arioso e festoso nel quale la voce dei due archi solisti assume un tono imperioso e marcato nel rapporto con il «Tutti» dell'orchestra. Il Largo ha un andamento meditativo, particolarmente adatto alla cantabilità del violoncello, primo e secondo, sorretto con discrezione dal cembalo. Dove Vivaldi sprigiona il suo estro puntato sulla luminosità del suono orchestrale è nell'Allegro finale, contrassegnato da una inarrestabile e travolgente vis strumentale.


13 dicembre 2023, ore 19

I VIRTUOSI ITALIANI

ALBERTO MARTINI maestro di concerto al violino

IL CIMENTO DELL’ARMONIA E DELL’INVENTIONE - PARTE PRIMA

“IL CIMENTO DELL’ARMONIA E DELL’INVENTIONE” (Opera 8) contiene dodici concerti per violino e archi, composti da Antonio Vivaldi tra il 1723 e il 1725. 

Iniziamo dal titolo, veramente bello, che mette in risalto la voglia di Vivaldi di comporre delle melodie armoniose, ma anche di sperimentare nuove strade compositive. Al suo interno troviamo nei primi quattro concerti, “Le quattro stagioni”, che sono tra le musiche più conosciute in assoluto del repertorio classico. Come spesso accade quando ci sono dei brani molto famosi, il rischio è che vengano messi in ombra gli altri, che non sono assolutamente da meno e meritano di essere ascoltati alla stessa stregua. Non solo, meglio non snobbare neanche “Le quattro stagioni”, che è vero le ascoltiamo spesso, ma a brandelli da spezzoni televisivi, o da orride suonerie su smartphone, omogenizzate ad uso e consumo di chi le trasmette, ma non di chi le riceve. Meglio quindi fare un passo indietro e ascoltare con attenzione nella versione adeguata proposta da I VIRTUOSI ITALIANI i concerti qui presenti. 

È incredibile pensare che Vivaldi fu dimenticato per decenni e riscoperto solo agli inizi del XX secolo, grazie alle ricerche dello studioso francese Marc Pincherle e in seguito di Alfredo Casella. Vivaldi è anche poeta, ed infatti scrive alcuni sonetti per descrivere con parole le quattro stagioni, che possono essere considerate una guida per seguire l’ascolto dei concerti. “Le quattro stagioni” infatti fanno parte di sette dei dodici concerti cui proposti, che sono stati composti “a programma”. Con la scelta del nome, Vivaldi voleva riferirsi al piacere che egli provava nello sperimentare - soprattutto nella sovrapposizione della forma del ritornello e dell’elemento programmatico - l’idea presente soprattutto nei concerti n. 5, 6 e 10. Questo significa che il loro ascolto, attraverso l’utilizzo degli strumenti, descrive una scena, che spesso è la descrizione di eventi naturali. I sette concerti di questo tipo sono quelli con un titolo: “La tempesta di mare”, RV 253, “Il piacere”, RV 180, “La caccia”, RV 362.

3 gennaio 2024, ore 19

I VIRTUOSI ITALIANI

ALBERTO MARTINI maestro di concerto al violino

Tra Venezia e Dresda

Un ideale viaggio musicale tra la Germania e l'Italia del diciassettesimo e diciottesimo secolo con un concerto intitolato Tra Venezia e Dresda con musiche di Antonio Vivaldi, Johann Georg Pisendel, Tomaso Albinoni e Wilhelm Friedmann Bach. Il programma della serata, particolarmente affascinante, rileggerà in musica le importanti connessioni culturali che da sempre hanno legato le due città di Dresda e Venezia: sin dal XVI secolo, epoca di gloria della Serenissima, i compositori e gli intellettuali tedeschi avevano come meta Venezia, per apprendere lo stile musicale e riproporlo a corte in Germania. La musica di Venezia circolava in tutta Europa, protagonista di stampe e pubblicazioni ad Amsterdam e Londra anche quando l’editoria veneziana aveva ormai lasciato spazio alle grandi capitali europee. Nel 1716 il giovane violinista Johann Georg Pisendel si recò a Venezia per apprendere le ultime tendenze musicali, con le quali mirava a consolidare la sua già prestigiosa posizione di primo violino della Hofkapelle di Dresda. Nel corso del suo lungo soggiorno nella Serenissima ebbe la possibilità di conoscere molti dei più eminenti compositori dell’epoca, primo tra tutti Antonio Vivaldi. Tra i due nacque una sincera stima, testimoniata dalle opere che il Prete Rosso dedicò al più giovane collega tedesco. Dopo il suo ritorno in patria, Pisendel si mantenne in contatto con Vivaldi, chiedendogli di scrivere una serie di concerti per quella che era considerata l’orchestra migliore d’Europa. Intorno al 1718 Pisendel, decise di dedicarsi anche alla composizione, una scelta che lo spinse a perfezionarsi con quello che era considerato l’autore più brillante della cappella musicale di Dresda, vale a dire Johan David Heinichen.

24 febbraio 2024, ore 19

I VIRTUOSI ITALIANI

ALBERTO MARTINI maestro di concerto al violino

Francesco Ferrarini violoncello solista

Il genio di pirano

Prima di giungere a Venezia, Charles Burney si fermò a Padova, desideroso di vedere quella Chiesa di Sant'Antonio dove aveva operato uno dei più grandi violinisti dell'epoca, Giuseppe Tartini: "In questi ultimi anni il soggiorno del celebre compositore e violista ha reso questa città non meno famosa che nell'antichità per essere stata il luogo natale del grande storico Tito Livio. Tartini era morto pochi mesi prima del mio arrivo qui, e considerai questo evento una particolare sventura per me ed una perdita per tutto il mondo musicale. Era un grande maestro e avrei desiderato molto sentirlo suonare così come poter conversare con lui. Visitai la strada e la casa dove aveva vissuto, la chiesa e la tomba dove era stato sepolto; volli vedere il suo busto, il suo successore, il suo esecutore testamentario, ogni cosa, anche insignificante e banale, che potesse illuminarmi sulla sua vita e sul suo carattere. Mi interessai a tutto ciò con lo zelo del pellegrino alla Mecca" (C. Burney, Viaggio Musicale in Italia, 30 luglio-2 agosto 1770).

Tra i grandi compositori del Settecento strumentale italiano, Tartini incentrò la quasi totalità della sua produzione attorno al suo strumento d'elezione con ben 135 Concerti per violino e circa 200 Sonate per violino e basso continuo. Per scelta non si cimentò mai con il melodramma e con gli altri generi vocali nonostante numerose pressioni poiché, come lui stesso dichiarò nel 1739, "sono stato sollecitato a comporre per i teatri di Venezia, ma non l'ho voluto mai fare, sapendo bene che una gola non è un manico di violino".

La maggior parte della produzione tartiniana è ancora manoscritta e solo poche composizioni apparvero in edizioni a stampa dell'epoca fra cui quelle di Le Cène e Witvogel ad Amsterdam e quelle di Le Clerc a Parigi.

Considerando che Tartini abitualmente non riteneva importante datare i propri lavori, solo il posteriore studio stilistico complessivo ci consente oggi di tracciare una ipotesi di percorso cronologico compositivo all'interno del complesso corpus musicale del padovano.

Lo studioso Minos Dounias, a cui si deve l'attuale catalogazione dei Concerti, colloca la prima fase della produzione tartiniana fra il 1721 e il 1735 con lavori chiaramente riferiti al modello del Concerto Grosso di stampo corelliano: netta distinzione tra gli episodi del solo e quelli del tutti, funzione marginale del movimento lento centrale, presenza di interi movimenti in stile imitativo polifonico.

La forma predominante sarà invece quella tripartita (Allegro-Adagio-Allegro) resa sistematica da Vivaldi e dai compositori veneziani.

Il passaggio verso la "seconda maniera", che il Dounias fa iniziare intorno al 1735, sarebbe riscontrabile in una serie di Concerti caratterizzati da un impegno tecnico di inusitata difficoltà, dall'arditezza armonica, dall'ampiezza dei movimenti lenti e dal frequente ricorso a "motti" poetici cifrati. Pur senza significativi cambiamenti dal punto di vista formale, questi lavori sarebbero uniti stilisticamente da una scrittura strumentale di arduo virtuosismo ormai libera da ogni suggestione vivaldiana, e soprattutto da una ancor più accentuata ricerca espressiva dei movimenti lenti, destinati a divenire adesso il vero e proprio centro ideale della composizione.



6 marzo 2024, ore 19

I VIRTUOSI ITALIANI

Glauco Bertagnin viola d’amore

Fabiano Merlante liuto

Due strumenti affascinanti: La viola d’amore e il liuto

Vittima di pregiudizi, di interpretazioni storiche fuorvianti, di pittoresche collocazioni esotiche, la musica per liuto di Antonio Vivaldi rimane ad oggi quasi un oggetto misterioso nell'ambito della produzione del Prete Rosso. Essa merita al contrario attenzione per la qualità che esprime e per annoverare almeno un capolavoro nel proprio ambito, il doppio concerto per viola d'amore e liuto RV 540. Le circostanze che spinsero Vivaldi a occuparsi del liuto, per quanto ne sappiamo, sono da ricercare particolarmente nella straordinaria paletta timbrica che il compositore aveva a disposizione alla Pietà e in una probabile richiesta specifica che gli fu rivolta dal conte boemo Johann Joseph von Wrtby. Il liuto, termine che nell'Italia settecentesca indica l'arciliuto o il liuto attiorbato, fu utilizzato da Vivaldi anche in veste di strumento realizzatore del basso continuo - si veda il secondo movimento del Concerto per la solennità di S. Lorenzo RV 556 - o, nel caso della tiorba, per particolari effetti timbrici, come all'interno dell'oratorio Juditha Triumphans. Si noti che lo strumento in Italia non era in una fase di declino inarrestabile, come sovente viene detto e scritto: lo si trova indicato come obbligato in partiture di opere o oratori di compositori come Alessandro Scarlatti, Pergolesi, Feo. Nei paesi di lingua tedesca il liuto viveva addirittura una fase di grande espansione e fortuna, Hãndel, Hasse, Bach, Heinichen, Fasch se ne interessarono in modo approfondito, mentre uno dei più grandi virtuosi del secolo di quelle terre fu proprio un liutista, Sylvius Leopold Weiss.

I due trii per liuto, violino e basso continuo RV 82 e RV 85 e il Concerto RV 93 sono figli probabilmente di un viaggio effettuato da Vivaldi nel 1730-31 a Praga. Qui il Prete Rosso entrò in contatto, come detto, con il conte von Wrtby, che con grande probabilità era anche liutista, oltre che conoscitore d'opera e grande appassionato di musica, tanto da mantenere presso la propria magione un insieme di musici stipendiati. I trii recano esplicitamente nell'intestazione la dedica al nobiluomo e recano una numerazione progressiva, essendo classificati come secondo e terzo (o quinto); il che fa pensare a una serie di trii, forse sei, ora in parte dispersi. Le tre composizioni del periodo boemo sono oggi conservate presso la Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino in copia autografa. L'acume compositivo e la curiosità vivaldiana si incontrarono a Praga con una tradizione liutistica di altissimo livello, che aveva espresso figure di grande spessore, come il conte Losy, e che poteva ritenersi all'avanguardia in Europa. Tutto sommato erano passati pochi anni dalla discesa in quelle terre di Sylvius Leopold Weiss, che nel 1723 aveva avuto modo di incontrare laggiù un altro grande italiano, Tartini. Vivaldi dà prova di conoscere questa tradizione, fors'anche semplicemente ascoltando le accademie che si tenevano presso le abitazioni nobiliari, come ci rivela il modo in cui è trattato il liuto, particolarmente nei trii. In queste composizioni la scelta timbrica del Prete Rosso è infatti fondata sulla sostanziale unità espressa dalla linea melodica del liuto e del violino. Lo strumento a pizzico è trattato quasi esclusivamente in modo monodico ed è raddoppiato dal dettato dello strumento ad arco a una ottava superiore, mentre il basso non svolge un ruolo concertante ma di supporto armonico. Tutto ciò corrisponde con parte della letteratura che conosciamo per liuto e violino della fine del '600 e degli inizi del '700 di origine viennese, ma sicuramente conosciuta anche a Praga, come testimoniano i lavori di Hinterleithner, von Radolt e Weichenberger. L'aspetto formale è ovviamente legato allo stile tardo di Vivaldi: tutti i movimenti sono in forma binaria con ripresa tematica nella seconda sezione, mentre le indicazioni agogiche denotano una certa precisione, come ad esempio l'Andante molto del Trio RV 85. Il Concerto RV 93 non si distacca dalle considerazioni svolte sulle scelte timbriche a proposito dei due trii, così come per l'aspetto formale dobbiamo rivolgerci al puro stile vivaldiano, come vedremo in seguito. Il Concerto RV 540 appartiene a un altro mondo, che è quello dell'Ospedale della Pietà di Venezia e delle sue straordinarie «putte» musiciste, ed è più tardo di una decina di anni, essendo stato eseguito laggiù per la prima volta il 21 marzo 1740. L'occasione fu data dalla visita che il principe Federico Cristiano, figlio ed erede di Augusto III re di Polonia ed elettore di Sassonia, effettuò a Venezia nell'ambito del suo grand tour italiano. Proprio in onore di Federico Cristiano, presso la Pietà il 21 marzo fu infatti eseguita la composizione encomiastica di d'Alessandro-Goldoni Il Coro delle Muse; per l'occasione Vivaldi scrisse quattro composizioni che introducevano tutte le straordinarie risorse dell'orchestra dell'Ospedale veneziano. Oltre al Concerto per viola d'amore e liuto RV 540 egli, infatti, scrisse i Concerti RV 552 e RV 558 e la Sinfonia RV 149, che poi raccolse in un unico manoscritto dal significativo titolo Concerti con molti istromenti donato al principe sassone, ancor oggi conservato a Dresda. Nel Concerto RV 540 Vivaldi utilizza il liuto ancora una volta sostanzialmente come strumento monodico, ancorché nei Tutti partecipi alla realizzazione del basso continuo, come esplicitamente richiesto dal compositore veneziano. È ovvio che alla Pietà doveva trovarsi una grande virtuosa di liuto, e che dunque Vivaldi abbia potuto esprimere al massimo le potenzialità dello strumento.

Il lavoro è concepito con un'architettura in tre movimenti, dei quali i due estremi pensati secondo la forma tipica del concerto con ritornelli affidati all'orchestra contrapposti a episodi assegnati ai due solisti, mentre il tempo centrale è concepito in forma binaria ed è in realtà un grande solo della viola d'amore accompagnata dal liuto e dal bassetto dei violini. Ciò che rende particolare questo concerto, oltre alla scelta timbrica legata ai due strumenti solistici, è l'imprevedibilità del rapporto fra ritornelli ed episodi: quasi sempre non esiste rapporto diretto tra ciò che viene espresso dall'orchestra e la risposta dei solisti, che oltretutto intonano frasi asimmetriche fra loro nel corso degli episodi. Il primo ritornello denota da subito una figurazione irrequieta nella linea melodica, che prevede ampi salti: gli strumenti dell'orchestra montano tutti la sordina, conferendo all'aspetto timbrico, coniugato alla scelta della tonalità di re minore, una luce particolarmente cupa, ancorché tenue. Il primo episodio è aperto dalla viola d'amore, che si esprime tramite una scrittura polifonica, a doppie corde, con una linea lirica e fortemente pregnante sostenuta dal bassetto affidato ai violini; a essa risponde il liuto con una frase fondata su arpeggi e note ribattute ma di diversa lunghezza, sette battute contro le otto della viola d'amore. Prende avvio quindi la seconda sezione dell'episodio, dove la viola propone due figurazioni riprese subito dal liuto in eco e che conducono direttamente al ritornello orchestrale. Il secondo episodio inserisce un ulteriore elemento di novità: è ancora la viola d'amore che apre la pagina, con un intervento più lungo rispetto a quello del primo episodio e ancora una volta il liuto risponde con una frase non relata a quella dell'altro strumento solistico. Prima della conclusione a canone dell'episodio stesso si affaccia però nuovamente la viola d'amore con un brevissimo intervento. Dopo il conseguente ritornello orchestrale prende avvio l'episodio finale. Qui l'interazione fra i due strumenti si fa sempre più profonda, dal veloce scambio di idee iniziale fino al procedere parallelo nella sezione finale. Il da capo, con ripresa del primo ritornello dell'orchestra, conclude il movimento.

Il Largo centrale è, come ha scritto giustamente Cesare Fertonani, un brano di disarmante dolcezza. Concepito in forma binaria come un vero e proprio solo della viola d'amore, vede affidato al liuto un delicato ruolo d'accompagnamento in arpeggi, scritti sinteticamente da Vivaldi sulla carta, mentre i violini sostengono i due strumenti eseguendo il bassetto a loro assegnato. Il movimento si configura così come una delicatissima e malinconica pagina, che dovette apparire agli ascoltatori presenti alla Pietà quasi straniante nell'ambito di una serata tanto celebrativa.

L'Allegro finale interrompe in modo brusco quest'atmosfera, assegnando all'orchestra un ritornello iniziale che presenta una prima frase fortemente affermativa, pur se ingentilita da appoggiature. Il primo episodio è aperto subito da un dialogo serrato fra i due strumenti solisti: il liuto risponde immediatamente alla viola d'amore, per poi procedere parallelamente con una veloce sequenza di note ribattute in quartine. Dopo il secondo ritornello orchestrale prende avvio il secondo episodio, trattato da Vivaldi in modo assai diverso. I due strumenti continuano a dialogare, ma quasi mai sovrapponendosi e soprattutto seguendo una linea melodica assai più nervosa. Il conseguente ritornello conduce all'episodio finale, all'interno del quale i due strumenti ritrovano una compattezza e una unità d'intenti straordinaria, alternando brevi incisi melodici iterati ad arpeggi e a note ribattute sostenute da progressioni armoniche. È compito però del breve ritornello orchestrale chiudere il concerto.

Se esiste un nome "simbolo" per il Concerto Barocco quello è sicuramente Antonio Vivaldi. Per il veneziano tale forma rappresentava la summa della sua arte musicale e la fama che circondava i suoi lavori (più in Europa che in Italia in realtà) andava di pari passo con la "vanità" con cui egli li componeva e presentava.

Già nel 1715, Johann Friedrich Armand von Uffenbach, membro di una illustre famiglia di mercanti e di dignitari di Francoforte ed entusiastico amante della musica, durante una visita a Venezia, appuntò nel suo diario di viaggio: "Dopo cena ho ricevuto in visita Vivaldi, il famoso compositore e violinista; dopo avergli fatto pervenire vari inviti in occasione di discussioni su alcuni Concerti Grossi che avevo intenzione di ordinargli, e dopo avergli anche fatto portare a casa alcune bottiglie di vino, sapendo che era un prete. Mi ha fatto ascoltare le sue fantasie sul violino, fantasie difficilissime e veramente inimitabili, a tal punto che, standogli vicinissimo, non potevo non stupire ancor di più della sua maestria".

Ciò che rende straordinari ancora oggi i Concerti vivaldiani è la loro varietà coloristica, l'abile scrittura dialogante fra i soli e i tutti, il virtuosismo solistico, la spigliata inventiva, l'utilizzo a volte anche di strumenti "inconsueti".

Come, ad esempio, la viola d'amore (che si caratterizza per la presenza, oltre che delle sette corde melodiche che vengono sollecitate dall'archetto, di una serie di sette corde di risonanza che scorrono sotto quelle principali attraverso il ponticello), per la quale scrive espressamente 6 Concerti.

Con il nome “viola d'amore”, si designa una viola un poco più grande di una «viola da braccio» e che ha, oltre a sette corde tese sopra il ponticello, altrettante che passano sotto e che non vengono toccate né dall'arco né dalle dita, ma vibrano «per simpatia» al vibrare delle corde superiori con le quali sono accordate all'unisono. Come dice il Grillet in «Les ancètres du violon et du violoncelle» (1901) «Il nome pieno di fascino, di viola d'amore dato a questo strumento, definisce molto poeticamente l'unione di questi due sistemi di corde, quasi due cuori amorosi, di cui l'uno, tenero e timido, vibra all'unisono con l'altro, per simpatia». I primi costruttori e suonatori reputati di viola d'amore furono italiani. Italiani anche i primi compositori che se ne valsero (tra questi emerse nella seconda metà del secolo XVII, l'Ariosti). Nel Settecento la viola d’amore cade in disuso e solo nell'Ottocento e nei tempi moderni viene usata a volte per effetti particolari.

A Vivaldi si devono due serie di Concerti per viola d'amore. Un primo gruppo, comprende sei Concerti i cui manoscritti sono custoditi nella raccolta «Mauro Foà» della Biblioteca Nazionale di Torino. Il Rinaldi assegna ad essi il numero d'opera 25. Un secondo gruppo di due Concerti (op. 63, cat. R.) si trova nella Sächsische Landesbibliothek di Dresda. Il Concerto programmato oggi è il quarto del primo gruppo (nel quale, sia detto tra parentesi, figurano altri due Concerti nella stessa tonalità di re minore).

Se è vero quanto afferma il Mantelli, e cioè che in Vivaldi «si delineano due posizioni dello spirito, in apparenza opposte e contrastanti, e nella sostanza, vicinissime e che rispecchiano quella affermazione individualistica, quella sottolineatura dell'io dell'artista che già sulle soglie del Settecento, preannunciano di lontano il romanticismo: una estatica e profonda introspezione interiore che si riflette in certi tratti immensamente calmi e placidi di tanti suoi adagi e nella materia sonora vibrante e multicolore di tanti allegri; e un sentimento freschissimo e immediato della natura che non è mai verismo più o meno onomatopeico, mediocre e inintelligente trasposizione sonora, ma che risponde a una sensibilità pronta a reagire alle sollecitazioni che le giungono attraverso i sensi fatti attenti e penetranti di fronte allo spettacolo fisico del mondo»; se è vera una tale distinzione di momenti polari nel mondo emotivo messo in essere dalla musica di Vivaldi, bisogna dire che il Concerto in re minore ne riflette esclusivamente il primo e più intimo momento. Infatti, sia i due Allegri laterali, con i loro temi ritmicamente così incisivi e spigliati, sia il Largo centrale, che si snoda con un andamento quasi da Siciliana, nel cullante ritmo di-12/8, si sostanziano di valori espressivi puramente interiori.


9 MARZO 2024, ORE 19

Alberto Martini maestro di concerto al violino

Federico Toffano violoncello solista

I CONCERTI PER VIOLONCELLO DI ANTONIO VIVALDI - PARTE SECONDA

I passaggi per violoncello solo sono antichi quasi quanto il genere del concerto stesso, ma nei primi concerti questi brevi voli solisti sono decorativi piuttosto che strutturalmente significativi, e il concerto propriamente “per” violoncello dovette aspettare per emergere finché Vivaldi non scrisse i primi esempi conosciuti. all’inizio del XVIII secolo. Sebbene lo strumento principale del compositore fosse il violino, per il quale deve aver scritto i suoi primi concerti da solista, i primi concerti databili sopravvissuti alla sua penna sono, stranamente, quelli per violoncello acquistati in manoscritto da un musicista tedesco in visita, Franz Homeck, nell’inverno del 1708-1709. Molto probabilmente, questi furono scritti per le musiciste dell’Ospedale della Pietà, l’istituto veneziano per trovatelli che Vivaldi prestò a intermittenza come insegnante di violino o direttore di musica strumentale dal 1703 fino alla sua morte nel 1741. Vivaldi scrisse altri concerti per violoncello per Pietà nel periodo 1723-1729, quando la mantenne rifornita con apposita convenzione di due concerti al mese, e ancora tra il 1735 e il 1738, quando ricoprì nuovamente il titolo di maestro dei concerti. Conosciamo i nomi di cinque violoncellisti attivi alla Pietà negli anni Trenta del Settecento: Claudia, Santina, Teresa, Tonina e Veneranda.

Evidentemente la Pietà condivideva in quel periodo l’entusiasmo europeo per lo strumento, che si riflette nella pubblicazione di sei sonate per violoncello di Vivaldi a Parigi intorno al 1740. È importante tenere presente, tuttavia, che nel corso della sua carriera il compositore vendette opere manoscritte a innumerevoli clienti e mecenati diversi. Questa attività corre parallela alla fornitura di opere alla Pietà e prosegue con ancora maggiore intensità quando il suo legame con l’istituzione viene temporaneamente interrotto. Per i concerti solistici di Vivaldi che utilizzano strumenti comuni come il violino, il violoncello o il flauto, spesso non è possibile stabilire, sulla base dell’evidenza delle fonti, quale fosse la destinazione originaria. A ciò va aggiunto il fattore complicante che Vivaldi conservava le sue composizioni in un archivio personale (la base della collezione odierna a Torino) ed era quindi sempre in grado di “ripubblicare” la sua musica, con o senza modifiche, per nuovi clienti. I concerti per violoncello solo di Vivaldi sono 28 (escluso il falso RV415 ma inclusi due concerti tardivi, RV787 e RV788, ineseguibili a causa della loro incompleta conservazione). Dopo i concerti per violino, che contano oltre 200, e i concerti per fagotto, che contano 39, questo è il più grande gruppo di concerti solistici della sua opera.

Per l’epoca è davvero notevole, poiché sebbene i concerti per violoncello coevi di Leo, Porpora, Tartini, Vandini, Chelleri e diversi altri esistano in piccole quantità, non c’è nulla nel Settecento che li eguagli sia in quantità sia, fino ad Haydn, in qualità. Vivaldi, che padroneggiava la viola d’amore e probabilmente anche la viola all’inglese, probabilmente aveva una conoscenza più che discreta del violoncello. In ogni caso, ne comprendeva profondamente la “anima” - il suo genio nell’esprimere una melodia cantata (spesso di umore malinconico) e la sua pari capacità di passaggi abbaglianti. Sfruttò con entusiasmo la sua capacità di agire, in rapida successione, come uno strumento nel registro “tenore” (equivalente a un violino che suona un’ottava più bassa), come uno strumento che suona la linea di basso in forma elaborata e come un basso robusto e disadorno. . Ha anche approfittato della sua capacità, spostandosi sulle corde o spostando bruscamente la posizione della mano, per eseguire ampi balzi - e non c’è nessuno come Vivaldi in grado di far emergere la potenza espressiva di ampi intervalli. Per gli studiosi appassionati della sua musica c’è l’ulteriore interesse che i concerti per violoncello siano rappresentati sia all’inizio che alla fine della sua carriera, formando collettivamente una cronaca del suo stile in evoluzione.

L’RV 419, in la minore, altra opera molto matura, nasconde nel primo movimento un riferimento al contenuto tematico dell’aria di Vivaldi “Agitatu infido flatu”. da Juditha Triumphans (1716); nell’oratorio le lente discese cromatiche dei violini e gli sbalzi cromatici degli accordi illustrano i venti ululanti che colpiscono una rondine che cerca invano di seguire una rotta diritta verso la sua destinazione. Il suo movimento lento ritorna alla familiare partitura della sonata, ma nel finale è in serbo una sorpresa. Fu lo stesso Vivaldi ad aprire la strada all’uso della forma variazione nei finali dei concerti (un primo esempio è l’ultimo movimento del concerto per flauto RV 437), e qui troviamo un esemplare particolarmente sofisticato modellato sulla passacaille en rondeau francese. L’idea alla base di questa miscela di variazione e forma di rondò è che lo stesso breve tema serve, se ripetuto letteralmente, come ritornello e, se elaborato, come base per una serie di variazioni. Nel movimento di Vivaldi il ritornello è seguito da un gruppo di tre variazioni prima del ritorno; seguono tre ulteriori variazioni, l’ultima delle quali si prolunga con una piccola ripresa per segnalare la chiusura della parte solistica, e il ritornello conclude debitamente il movimento.

Il Concerto in do minore per violoncello RV 401 è evidente testimonianza di come il musicista ha impostato e risolto il problema della composizione per tale strumento solista e il suo rapporto con l’insieme orchestrale gettando le basi della letteratura successiva. Qui, come nelle composizioni analoghe per violino, si attua una struttura ampiamente dialogica e le zone solistiche acquistano indubbio valore virtuosistico conseguentemente alle proprietà foniche e tecniche dello strumento. Nell’Adagio centrale si dà invece libero corso alla tipica cantabilità del violoncello, caratterizzando l’orchestra con disegni contrastanti e drammaticamente funzionali.

Un posto tutto particolare tra i concerti vivaldiani occupa quello in sol minore per due violoncelli, d’incerta datazione (come avviene per la più parte delle opere del Prete Rosso conservateci in forma manoscritta), ma, secondo il Kolneder, non anteriore agli anni 1720, attorno ai quali la tecnica violoncellistica doveva compiere rapidi progressi sotto l’impulso di alcuni virtuosi di scuola bolognese, tra i quali il celebrato Giuseppe Jacchini. Nel suo Concerto per due violoncelli, Vivaldi parte con fiducia baldanzosa alla conquista dell’agilità e del registro tenorile dei due per allora infrequenti strumenti concertanti. La scrittura si avvale, anche qui, di sommari effetti polifonici d’un gusto decorativo, alternati, come nel finale, a vigorosi unisoni.

Il concerto si apre con un tema ritmicamente vigoroso dei due violoncelli, cui segue un contrappunto arioso e festoso nel quale la voce dei due archi solisti assume un tono imperioso e marcato nel rapporto con il «Tutti» dell’orchestra. Il Largo ha un andamento meditativo, particolarmente adatto alla cantabilità del violoncello, primo e secondo, sorretto con discrezione dal cembalo. Dove Vivaldi sprigiona il suo estro puntato sulla luminosità del suono orchestrale è nell’Allegro finale, contrassegnato da una inarrestabile e travolgente vis strumentale.


16 MARZO 2024, ORE 19

I VIRTUOSI ITALIANI

Alberto Martini maestro di concerto al violino

Antonio Vivaldi: i 12 Concerti dell’Opera VII - parte prima

L’opera 7 è una serie di dodici concerti, dei quali dieci per violino, archi e basso continuo e due (il n. 1 e il n. 7) per oboe, archi e basso continuo, composti tra il 1716 ed il 1717.

20 MARZO 2024, ORE 19

I VIRTUOSI ITALIANI

Alberto Martini maestro di concerto al violino 

Paolo Pollastri oboe

“Il CIMENTO DELL’ARMONIA E DELL’INVENTIONE” OPERA OTTAVA - LIBRO II

“IL CIMENTO DELL'ARMONIA E DELL'INVENTIONE” (Opera 8) contiene dodici concerti per violino e archi, composti da Antonio Vivaldi tra il 1723 e il 1725. 

Iniziamo dal titolo, veramente bello, che mette in risalto la voglia di Vivaldi di comporre delle melodie armoniose, ma anche di sperimentare nuove strade compositive. Al suo interno troviamo nei primi quattro concerti, "Le quattro stagioni", che sono tra le musiche più conosciute in assoluto del repertorio classico. Come spesso accade quando ci sono dei brani molto famosi, il rischio è che vengano messi in ombra gli altri, che non sono assolutamente da meno e meritano di essere ascoltati alla stessa stregua. Non solo, meglio non snobbare neanche "Le quattro stagioni", che è vero le ascoltiamo spesso, ma a brandelli. Meglio quindi fare un passo indietro e ascoltare con attenzione nella versione adeguata proposta da I VIRTUOSI ITALIANI i concerti qui presenti. 

È incredibile pensare che Vivaldi è stato dimenticato per decenni e riscoperto solo agli inizi del XX secolo, grazie alle ricerche dello studioso francese Marc Pincherle e in seguito di Alfredo Casella. Vivaldi è anche poeta, e infatti scrive alcuni sonetti per descrivere con parole le quattro stagioni, che possono essere considerati una guida per seguire l'ascolto dei concerti. "Le quattro stagioni" fanno parte di sette dei dodici concerti qui proposti, che sono stati composti "a programma". Con la scelta del nome, Vivaldi voleva riferirsi al piacere che egli provava nello sperimentare - soprattutto nella sovrapposizione della forma del ritornello e dell'elemento programmatico - l'idea presente soprattutto nei concerti n. 5, 6 e 10. (non chiaro) Questo significa che il loro ascolto, attraverso l'utilizzo degli strumenti, descrive una scena, che spesso è la descrizione di eventi naturali. I sette concerti di questo tipo sono quelli con un titolo: "La tempesta di mare", RV 253, "Il piacere", RV 180, "La caccia", RV 362.

23 MARZO 2024, ORE 19

I VIRTUOSI ITALIANI

Alberto Martini maestro di concerto al violino

Antonio Vivaldi: i 12 Concerti dell’Opera VII - parte seconda

L’opera 7 è una serie di dodici concerti, dei quali dieci per violino, archi e basso continuo e due (il n. 1 e il n. 7) per oboe, archi e basso continuo, composti tra il 1716 ed il 1717.

30 MARZO 2024, ORE 19

I VIRTUOSI ITALIANI

Alberto Martini maestro di concerto al violino

Paolo Pollastri oboe

Antonio Vivaldi: i 12 Concerti dell’Opera VII - parte terza

L’opera 7 è una serie di dodici concerti, dei quali dieci per violino, archi e basso continuo e due (il n. 1 e il n. 7) per oboe, archi e basso continuo, composti tra il 1716 ed il 1717.

3 aprile 2024, ore 19

I VIRTUOSI ITALIANI

Alberto Martini maestro di concerto al violino

GIANFRANCO BORTOLATO oboe

TESORI DEL BAROCCO VENEZIANO

Il programma racchiude il desiderio di poter esplorare le potenzialità espressive dell’oboe nell’Italia del primo Settecento, periodo in cui compositori come Telemann, Vivaldi, Bach, Haendel e Scarlatti stavano conquistando il mondo della musica. 

E Venezia è sicuramente la città considerata la capitale della musica barocca o quantomeno la città di grandi compositori come Vivaldi, Albinoni, Marcello che hanno composto famosi concerti per oboe. 

Ma vi sono altri compositori meno conosciuti, veneziani e non, (Bigaglia, Elmi, Ristori, Platti) che nello stesso periodo hanno composto concerti per oboe che meritano sicuramente una giusta attenzione e considerazione. 

Diogenio Bigaglia (1676 - 1745) è anche quella oggi meno conosciuto. Se i fratelli Marcello erano nobili dilettanti veneziani, Bigaglia era invece un prete che trascorse tutta la sua età adulta nel monastero benedettino di San Giorgio Maggiore (attuale Giogio Cini) dove divenne priore nel 1713

Bigaglia fu un prolifico compositore non solo di musica sacra, ma anche di musica profana

Il concerto per oboe, conservato nel castello di Herdringen in Germania, presenta forme impeccabilmente vivaldiane; il suo linguaggio musicale largamente diatonico e leggermente sobrio deve qualcosa ad Albinoni. Il primo movimento ha un piglio comico sicuramente intenzionale -con ripetuti richiami del cucù-e la stessa spensieratezza caratterizza il finale a mò di giga. In contrasto, il languido movimento lento in sol minore che è strumentato per oboe e basso continuo.

Della vita di Domenico Elmi (1676-1744) sappiamo molto poco; nativo di Venezia si distinse verso il 1760 con varie composizioni di musica ecclesiastica. Questo virtuoso filarmonico inoltre aveva una grande abilità nel violino e nella viola.

Il concerto per oboe, colorato ed emozionante, è una vera scoperta; il suo stile ricorda la musica di Giovanni Gabrieli (1557-1612) un compositore che lavorò come organista nella Basilica di San Marco a Venezia 

Alberto Ristori (1692-1753) si ritiene sia nato a Bologna e sulla gioventù e degli anni di studio si conosce poco .

Figlio di una compagnia itinerante di attori italiani ingaggiata dalla corte di Sassonia; il suo primo lavoro documentato è l’opera Orlando Furioso che fu rappresentata nel 1713 al Teatro Sant’Angelo di Venezia anche se fu operante attraverso tutto il periodo d’oro della musica della corte di Dresda. La sua personalità era profondamente legata alla cultura musicale della città anche se egli non diede mai un influsso alla musica del tempo a livello europeo. Fu un abile clavicembalista ed organista nonché notevole compositore come testimoniato dal concerto per oboe. Gran parte dei manoscritti sono andati distrutti durante il bombardamento di Dresda da parte degli alleati nel 1945.

Tra i musicisti veneziani cresciuti all’ombra di Vivaldi c’era Giovanni Benedetto Platti (1697-1763) il cui strumento principale era l’oboe, benché potesse anche rendersi utile come clavicembalista, violinista e tenore. Nel 1722 fu ingaggiato alla corte del principe-arcivescovo di Bamberg-Wurzburg dove finì i suoi giorni.

Un solo concerto per oboe sopravvive in autografo nella biblioteca dei conti Schoenborn a Wiesentheid, in Bassa Franconia. Sin dall’inizio è evidente la forte impronta vivaldiana di questo concerto , stilistica non meno che strutturale 

La musica di Platti è ricca di passione e gusto, con un’armonia e modulazioni ingegnose e materiale tematico incisivo. La sua scrittura è più ampia di quella di Vivaldi, tendendo verso le più ampie proporzioni di un concerto d’epoca classica.


6 APRILE 2024, ORE 19

I VIRTUOSI ITALIANI

Alberto Martini maestro di concerto al violino

Antonio Vivaldi: i 12 Concerti dell’Opera VII - parte quarta

L’opera 7 è una serie di dodici concerti, dei quali dieci per violino, archi e basso continuo e due (il n. 1 e il n. 7) per oboe, archi e basso continuo, composti tra il 1716 ed il 1717.

13 APRILE 2024, ORE 19

I VIRTUOSI ITALIANI

Alberto Martini maestro di concerto al violino

Daniele Falco fagotto

Atmosfera misteriosa e febbrile

Nonostante la battuta sarcastica anche il Prete Rosso faceva parte di quel "patrimonio familiare" da custodire e con cui confrontarsi. D'altra parte "Bach e Vivaldi parlavano sensibilmente lo stesso linguaggio, e i discepoli lo ripetevano dopo di loro, trasformandolo senza saperlo, ciascuno secondo la sua personalità" (I. Stravinskij, Poetica musicale).

In particolare, sarà la straripante personalità del veneziano a reinterpretare l'idea stessa di Concerto. Nel 1713 Mattheson spiegava come questo termine potesse significare sia la semplice "riunione" di più strumenti musicali, sia composizioni scritte "in modo tale che ciascuna parte a volta a volta predomini e rivaleggi, per così dire, con le altre parti" (in Das neu-eröffnete Orchestre, Hamburg, 1713). E sarà proprio Vivaldi che gestirà questa particolare "dialettica" attraverso una straordinaria varietà stilistica e ricchezza timbrica precorritrici degli sviluppi futuri.

E sotto questi aspetti il Concerto per fagotto RV 484 è assolutamente esemplare. Se nel primo Allegro poco si assiste ad un vero e proprio divertimento fra le parti, con imitazioni, dialoghi e ampie "rincorse" virtuosistiche, l'Andante centrale mostra le tipiche caratteristiche melodico-espressive dei movimenti lenti del compositore veneziano: il fagotto solo si libra con ariosità e liricità - sostenuto da un delicato piano di archi - in frasi di grande intensità. Il tutti dell'orchestra riprende il suo protagonismo nell'ultimo Allegro dove anche il solista è chiamato a disegnare senza tregua arabeschi, salti, diminuzione velocissime, incitato da un basso incalzante.

Insomma, la realtà che emerge dall'analisi musicale della produzione vivaldiana appare assai diversa dall'aneddoto stravinskjano: ogni Concerto possiede caratteristiche peculiari e riconoscibili, spesso sperimentali e innovative. Ma d'altra parte il musicista russo aveva ben chiaro tutto ciò quando afferma: "Così la musica esprime sé stessa: nel senso che ogni opera, proprio differenziandosi quale unico messaggio irripetibile, ci rimanda sempre alla tradizione musicale che l'ha prodotta, riconducendoci perennemente al suo codice" (I. Stravinskij, Poetica della musica).


Restano ignoti i motivi che spinsero Vivaldi a scrivere quasi quaranta concerti per fagotto; certo è che il «prete rosso» fu il primo grande compositore a valorizzare in chiave solistica le potenzialità espressive dello strumento. Il Concerto RV 498 è notevolissimo per qualità e forza inventiva. L'Allegro d'esordio (schema: quattro ritornelli e tre episodi) sprigiona un'atmosfera misteriosa e febbrile, simile a quella che anima certi concerti descrittivi come La notte, Il sospetto e L'inquietudine. Il nervoso staccato delle note ribattute e i cromatismi del ritornello d'apertura conducono in breve al primo episodio, dove si può apprezzare come Vivaldi affidi con disinvoltura al fagotto un impegnativo repertorio di chiara matrice violinistica: ampi e repentini salti di registro, figurazioni rapide, trilli e volatine. Il che si ripete nel secondo e poi nel terzo episodio, che costituisce il corrispettivo del primo «Solo».

Il magico Larghetto adotta, su scala ridotta, il principio del ritornello. Il «Tutti» iniziale offre lo spunto al primo «Solo», che, come il secondo, sa trarre dal fagotto un'intensità e una cantabilità insospettate.

Meno folgorante dei movimenti precedenti, l'Allegro finale si qualifica per la disponibilità danzante e per una parte solistica ancora all'insegna del virtuosismo di agilità (schema: quattro ritornelli e tre episodi).



17 APRILE 2024, ORE 19

Pietro Battistoni maestro di concerto al violino

ROSSO VERONA BAROQUE ENSEMBLE

Pietro Battistoni violino I

Maria Ines Zanovello violino II

Lorenzo Boninsegna viola

Cristina Vidoni violoncello

Mario Filippini contrabbasso

Edoardo Valorz clavicembalo

I moti dell’anima: Sinfonie e concerti dei maestri veneti nel cuore dell’Europa

All’alba del secolo XVIII una nuova estetica musicale fa breccia nel cuore dell’Europa e sono i compositori di origine veneta che si fanno ambasciatori di questo rinnovato gusto. Appresa la lezione corelliana, imbracciano e perfezionano un nuovo linguaggio idiomatico pensato per sfruttare al meglio i timbri e le possibilità tecniche degli strumenti ad arco. Sono gli anni in cui fioriscono le più importanti scuole di liuteria italiana e di pari passo si evolve il gusto estetico musicale: i compositori che spingono la scrittura musicale verso nuove frontiere sono essi stessi virtuosi del proprio strumento e concertisti affermati. Il violino spicca 

il volo verso caleidoscopici turbinii virtuosistici e le compagini strumentali affinano una prassi esecutiva che getta le basi per la struttura dell’orchestra, come andrà affermandosi poi nella seconda metà di quello stesso secolo.  

L’intento dei compositori è quello di “muovere gli affetti”, ossia suscitare emozioni anche contrastanti nell’ascoltatore utilizzando figure retoriche, soluzioni sonore e mezzi espressivi innervati da nuove possibilità di comunicazione. 

Il programma qui presentato propone composizioni di autori nati sotto le ali del leone di San Marco: Giuseppe Torelli, veronese di nascita – poi trapiantatosi a Bologna, è il padre della forma del Concerto e capostipite di quella scuola strumentale che insieme a Corelli crea quel nuovo filone, destinato ad avere un enorme impatto sulla storia della musica occidentale. Nel corso della sua vita svolge non solo una intensa attività di concertista, che lo porterà fuori dall’Italia ad esibirsi nelle più importanti corti di Austria, Germania e Paesi Bassi, ma anche di pedagogo. Inoltre, egli è uno dei primi compositori italiani a pubblicare le sue opere in Olanda assicurando così alla sua musica grande diffusione in tutto il resto dell’Europa.

Evaristo Felice Dall’Abaco, anch’egli veronese di nascita, sa cogliere le innovazioni del momento declinandole secondo un gusto personale che se da un lato mostra grande devozione a Corelli dall’altro si dipana in una scrittura molto più densa che saprà cogliere i favori del pubblico tedesco, nazione nella quale vivrà la più significativa parte della sua vita. 

Vivaldi è quello che raccoglie infine l’eredità artistica di Torelli arricchendola del suo genio e portandola a vette di espressività e comunicatività, insperate prima di allora. La vena melodica delle sue composizioni si fa talvolta esuberante, tal’altra patetica e la conduzione ritmica accattivante e sorprendente sprigiona una forza dirompente. 

Queste composizioni non hanno l’obiettivo di intrattenere, quanto quello di guidare l’ascoltatore verso un percorso emotivo che dia libero sfogo a quei moti che ognuno di noi sente abitargli il petto.



Rosso Verona è un gruppo di recente formazione, fondato nel 2021 all’Aja, Paesi Bassi, dal violinista italiano Pietro Battistoni. L’intento dell’ensemble è quello di riscoprire tesori musicali dimenticati e valorizzare l’eredità culturale del passato, specialmente quella italiana, con particolare attenzione all’esecuzione storicamente informata della musica del XVII e XVIII secolo su strumenti originali e copie di essi. Il nome scelto per identificarci rende omaggio al “pregiato marmo color fiore di pesca” (per citare il poeta inglese John Ruskin, che così lo descrisse) che proviene dai monti Lessini nella provincia di Verona. Questa sontuosa pietra si erge a sfidare l’impietoso scorrere del tempo con la sua eleganza e nobiltà: noi vogliamo dedicarci a riscoprire l’antico splendore di un repertorio musicale che con pari grazia è giunto fino a noi.

L’Ensemble è composto da giovani e talentuosi musicisti, già affermati sulla scena internazionale della Musica Antica, che si sono formati nelle scuole più prestigiose per questa specializzazione, quali il Conservatorio Reale dell’Aja e la Schola Cantorum Basiliensis.

L’Ensemble ha registrato per Challenge Records i “Concerti da camera per due violini e basso continuo” op. 2 di Giuseppe Torelli, uscita prevista per Giugno 2024.


Pietro Battistoni, classe 1992, intraprende lo studio del violino sotto la guida di Walter Daga. Consegue il Diploma di Violino presso il Conservatorio di Musica “E. F. Dall'Abaco” di Verona nel 2011 con Vinicio Capriotti.

Dal 2012 si dedica allo studio della prassi esecutiva barocca e nel Febbraio del 2016 consegue la Laurea di Biennio di II Livello in Violino Barocco con Enrico Parizzi presso il Conservatorio di Musica “E. F. Dall'Abaco” di Verona, con il massimo dei voti.

Dal 2017 continua lo studio del violino barocco presso il Conservatorio Reale dell'Aja (Paesi Bassi) nella classe di Enrico Gatti, dove consegue il Bachelor nel 2019 e il Master nel 2021 in Violino Barocco.

Nel 2019 prende parte ad un progetto di scambio tra il Conservatorio Reale dell'Aia e la Juilliard School di New York, dove vi si esibisce, dopo essere stato preparato da Monica Hugget, Richard Egarr e Robert D. Levine. Nel 2017 entra nell'organico di “Theresia Youth Baroque Orchestra” e prenderà parte all'attività concertistica di questa fino al 2020.

Viene invitato in qualità di relatore alla “Ton Koopman Academy” nel 2021 e al “Convegno Internazionale di studi su Giuseppe Torelli” organizzato dal gruppo Arcomelo nel 2023.

Si esibisce regolarmente ed ha collaborato ad incisioni discografiche con l'“Orchestra of the Eighteen

Century”, fondata da Frans Brüggen; con “Ensemble Aurora” sotto la guida di Enrico Gatti; con la Cappella Marciana della Basilica di San Marco a Venezia diretta da Marco Gemmani; con “Concerto Romano” diretto da Alessandro Quarta.

Si esibisce in qualità di violino di spalla con l’Ensemble Locatelli, diretto da Thomas Chigioni. 

Nel 2021 fonda l’ensemble barocco Rosso Verona, con il quale si dedica alla riscoperta di tesori musicali dimenticati e alla valorizzazione del patrimonio culturale del passato, in particolare della tradizione italiana. Con Rosso Verona realizza nel luglio 2023 l’incisione discografica, inedita discograficamente, delle “Sonate da Camera per due violini e basso continuo op. 2” di Giuseppe Torelli, in uscita nel Giugno 2024 per l’etichetta Challenge Records. 

8 maggio 2024, ore 19

I VIRTUOSI ITALIANI

Alberto Martini maestro di concerto al violino

Paolo Pollastri oboe d’amore

IL calore DELL’OBOE D’AMORE

Negli strumenti a fiato (Flauto, Oboe, Clarinetto) l'appellativo “d'Amore” deriva dal fatto che sono tagliati in La, nel caso dell'Oboe, una terza minore più in basso. 

Differente è il caso della Viola, dove probabilmente la definizione “d'Amore” deriva da “moresca” per via di quella serie di sottili corde metalliche che passano sotto la tastiera e che vibrando per simpatia, danno un colore al suono con caratteristiche orientali. 

L'Oboe d'Amore, leggermente più lungo dell'Oboe e con una campana piriforme, trova sin dalla sua nascita alla fine del '600 un largo utilizzo nelle musiche di J.S.Bach. G.Ph.Telemann, Ch.Graupner, J.D.Heinichen, A.Lotti ed altri. 

Dopo questo florido periodo l'Oboe d'Amore cadde praticamente in disuso, fintanto che con l'avvio della “Bach renaissance” ad opera di F.Mendelsshon-Bartoldy, che nel 1829 a Lipsia ripropose la Passione Secondo Matteo, si senti la necessità di disporre di Oboi d'Amore che avessero una meccanica aggiornata. L'Oboe d'Amore barocco, infatti, costruito in legno di bosso, aveva due sole chiavi, al contrario a metà dell'Ottocento venivano già utilizzati legni più duri, ma soprattutto il sistema di chiavi ne contava addirittura 13. 

Sappiamo che per l'esecuzione di Lipsia vennero utilizzati Clarinetti al posto degli Oboi da Caccia, mentre la parte dell'Oboe d'Amore venne affidata all'Oboe o al Corno Inglese, a seconda del registro. 

Nel 1874 il Direttore del Conservatorio di Bruxelles F.A.Gevaert, fece costruire da V.Ch.Mahillon un Oboe d'Amore “moderno”, che in realtà aveva una campana a padiglione, come l'Oboe. Saranno i costruttori francesi Triebert e Lorèe che ripristineranno la forma piriforme della campana. 

L'evoluzione dell'Oboe d'Amore ispirerà il suo utilizzo da parte di compositori come R.Strauss (nella Sinfonia domestica), C.Debussy (in Images), M.Ravel (nel Bolero)...e a fine XX secolo da compositori quali B.Maderna, P.Renosto, G.Sinopoli, L.Singer, Ch.Koechlin, G.Ligeti.... 


22 maggio 2024, ore 19

“NEAPOLIS VERSUS VENETIA”

I VIRTUOSIITALIANI

Glauco Bertagnin maestro di concerto al violino

Dorina Frati mandolino

“NEAPOLIS VERSUS VENETIA”


Il programma intende proporre un confronto tra due scuole musicali molto importanti proprio nel periodo barocco. A Venezia c’erano gli Ospedali come a Napoli c’erano i Conservatori. Gli Ospedali, in realtà erano dei centri culturali veri e propri.

A tutti gli effetti erano, soprattutto per quanto riguarda la Pietà a Venezia, dei veri e propri Conservatori, in analogia con quei famosissimi 4 di Napoli, dove erano ammessi soltanto maschi.

Alla Pietà, l’Ospedale più famoso e accreditato non solo a Venezia, ma anche in tutta Europa, tutti i sabati, le Domeniche e durante le festività veniva fatta musica  con le musiciste che si esibivano dietro le grate dei due cori, in modo che non fossero visibili dai fedeli o comunque da chi era in Chiesa.

Il programma in definitiva si basa sul confronto nell’epoca barocca tra gli Ospedali di Venezia, come la Pietà, i cui suoi albori risalgono intorno al 1300 e i Conservatori e gli Ospedali di Napoli, luoghi molto attivi culturalmente. L’Ospedale degli Incurabili a Napoli era proprio nel punto più elevato della città vecchia, dove gli antichi greci edificarono le mura difensive di Neapolis e dove la leggenda vuole che riposino le spoglie di Partenope, per circa cinquecento anni ha rappresentato un indiscusso punto di riferimento per la medicina meridionale. Poi ce n’erano molti altri tutti con una lunga storia alle spalle, come i Derelitti, che sorse nel 1528 presso il complesso conventuale dei Santi Giovanni e Paolo, gli Incurabili, fondato nella quaresima del 1522, i Mendicanti istituito nel 1588.

Per tutto il corso del diciottesimo secolo, il mandolino godette di una certa fortuna come strumento solistico, e vide fiorire una ricca letteratura a lui dedicata, comprendente concerti, sonate, pezzi solistici e duetti. In Italia, esso ebbe larghissima diffusione non solo a Napoli, ma anche nel Nord, dove si può dire che ogni città avesse un suo tipo particolare di mandolino. Analogamente, anche nel resto dell’Europa, ed in particolare a Parigi e Vienna, lo strumento visse una breve stagione di successo, testimoniata da una letteratura di buona qualità. Nella produzione di opere per mandolino furono coinvolti anche autori come Johann Nepomuk Hummel e Ludwig van Beethoven.

Il programma odierno propone uno scambio tra due città che nel periodo barocco furono la culla della produzione musicale dell’epoca: Venezia e Napoli.

A rappresentare la musica della Serenissima chi meglio di Antonio Vivaldi può esprimere la freschezza e il brio della Venezia dei Dogi?

Fra la moltitudine degli strumenti usati dalla fantasia di Vivaldi spiccano anche gli strumenti pizzicati come il mandolino, il liuto e la tiorba. Il mandolino - del tipo napoletano a quattro corde - era uno strumento strettamente imparentato col violino, di cui replicava l'accordatura: era quindi molto semplice, per un violinista, praticare questo strumento a pizzico. Ma il mandolino che circolava a Venezia al tempo di Vivaldi era uno strumento a sei corde accordate all'ottava sopra del normale liuto in sol: detto talvolta «mandolino lombardo», era in pratica un liutino soprano. Sicuramente le «putte» della Pietà praticavano, il mandolino: fra queste spiccava la bravissima Anna Maria, allieva prediletta di Vivaldi, che si destreggiava tanto sul violino quanto sulla viola d'amore, mandolino, tiorba e cembalo. Vivaldi inserì infatti un'aria col mandolino solista nel suo poderoso oratorio Juditha triumphans, RV 644, laddove si parla di caducità del mondo: nulla, meglio dei brevi suoni pizzicati del mandolino, a sua volta accompagnato da un bassetto di violini pizzicati, poteva meglio evocare la transitorietà del mondo. Fuori dalla Pietà, sappiamo che Vivaldi ebbe fitti rapporti di scambio col mecenate ferrarese marchese Guido Bentivoglio d'Aragona, dilettante di mandolino: per lui fu probabilmente scritto il Concerto RV 425, gioiello timbrico in cui i "Tutti" orchestrali sono da suonarsi con la compagine degli archi sempre pizzicati, a creare una sorta di orchestra di mandolini e tiorbe che accompagna il solista nel suo gioco sospeso sopra al nulla.

All’Ospedale della Pietà di Venezia, Antonio Vivaldi esercitò la sua arte, due mandolini erano presenti nell’inventario del 1790 tra gli strumenti usati dalle orfanelle istruite musicalmente e dirette da Vivaldi stesso.

Il concerto in DO Maggiore RV 425 è un brano vibrante e vivace, che mette in mostra l’agilità del mandolino con un movimento iniziale ricco di note ribattute, il largo centrale con la scrittura puntata tipica della scrittura Vivaldiana che si ripresenterà poi nell’Andante del concerto per Liuto, due violini e basso e per finire con un frizzante allegro.

Il Concerto in RE Maggiore per liuto, due violini e basso vede l’esecuzione della parte del liuto affidata al mandolino che alla stregua di un liuto soprano eseguirà la vivace parte dei due allegri per affidare la parte cantabile all’ andante centrale.

A rappresentare il clima partenopeo due concerti di Emanuele Barbella (1718-1777) e Domenico Gaudioso.

Emanuele Barbella, stimato violinista e compositore, appartenente alla cosiddetta “Scuola Napoletana” che nel corso del Settecento, mentre il melodramma si appresta a dominare sulle scene, tiene vivo l’interesse per la musica strumentale; fido informatore di Charles Burney per quanto riguardava la vita musicale dei conservatori napoletani, Barbella fu violinista, compositore e convinto tartiniano.

Figlio del violinista Francesco Barbella e nipote del compositore Michele Cavallone (o Gabellone), la sua biografia si snoda tra i contatti con importanti voci del mondo musicale, da Padre Martini ai Mozart, al Farinelli, e con esponenti del tessuto diplomatico inglese dell’ambiente napoletano, dominato da figure quali Lord Hamilton e Lord Fortrose, restituendo l’immagine di un uomo profondamente calato nel suo tempo.

Domenico Gaudioso è invece un altro di quei musicisti su cui la musicologia si è interrogata senza trovare (almeno finora) una risposta. Il suo nome, infatti, compare solamente sui due manoscritti (uno a Parigi, l’altro a Uppsala) di questo, peraltro, pregevole Concerto in Sol maggiore per mandolino, archi e basso continuo. Articolato nella classica forma tripartita, il concerto rivela una forte personalità creativa, al punto che alcuni ritengono che il nome Gaudioso altro non sia che la storpiatura, dovuta a qualche copista del nome Cimarosa. L’ipotesi è suggestiva e certo avvalorata dalla qualità della musica, piena di slancio e di vigore nei due bellissimi allegri, e traboccante di teatrale e napoletanissima espressività nel largo. 



31 MAGGIO 2024, ORE 19

2 giugno 2024, ore 19

I VIRTUOSI ITALIANI

Alberto Martini maestro di concerto al violino

Darko Brlek clarinetto

un virtuoso Omaggio

Il Quintetto per clarinetto e quartetto d'archi K. 581 fu terminato di comporre il 29 settembre 1789 a Vienna, in un periodo di gravi difficoltà economiche per Mozart, nonostante l'anno precedente avesse scritto le tre grandi sinfonie K. 543, K. 550 e K. 551 (Jupiter) e due anni prima avesse ottenuto un significativo successo a Praga con il dramma giocoso Don Giovanni. Non per nulla proprio nel 1789 e a più riprese il musicista indirizzò diverse lettere con richieste urgenti di denaro al ricco commerciante e suo amico Michele Puchberg, il quale in varie occasioni aiutò l'infelice artista. Sono lettere che denunciano lo stato di estrema miseria in cui versava il musicista e che Puchberg, da buon commerciante, conservò con cura e tramandò ai posteri, annotando in margine, di volta in volta, la somma elargita. Ecco una di queste lettere inviata dal compositore ai primi di luglio del 1789 al suo cortese benefattore e rivelatrice di una condizione psicologica al limite della disperazione. «Sono in condizioni che non augurerei al mio peggior nemico - scrive Mozart - e se voi, ottimo amico e fratello, m'abbandonate, sarò purtroppo, e senza alcuna colpa da parte mia, perduto con la mia povera moglie ammalata e i bambini. L'ultima volta che mi trovai con voi fui sul punto di aprirvi il cuore... ma il cuore mi mancò. E ancora mi mancherebbe se non vi sapessi informato delle mie condizioni e perfettamente convinto dell'assoluta mancanza di colpa da parte mia in questo tristissimo stato di cose. Oh Dio! Invece di ringraziarvi avanzo nuove richieste. Se conoscete a fondo il mio cuore, sentirete tutto il dolore che ciò mi procura. Il destino mi è purtroppo così avverso - ma qui a Vienna soltanto - da non consentirmi di guadagnare nulla, con tutta la migliore volontà. Se almeno non fosse venuta quella malattia (il musicista si riferisce al ricovero in ospedale della moglie Costanza per l'infezione ad un piede), non sarei ora costretto a mostrarmi così sfrontato verso il mio unico amico. Perdonatemi, per l'amor di Dio, perdonatemi soltanto».

Niente di questa tristezza e disperazione si avverte nel Quintetto d'archi con clarinetto K. 581, che Mozart chiamò Stadler-Quintett, perché composto per l'abilissimo clarinettista Antonio Stadler. Usato per la prima volta in tutta la sua estensione, il suono del clarinetto, morbido, sensuale, agile e melodioso, si mescola con la dolcezza degli archi, creando una serena atmosfera primaverile, espressione di una superiore visione dell'arte. Il carattere distensivo e affabile della composizione si rivela sin dal primo tema dell'Allegro iniziale annunciato dagli archi e ripreso e sviluppato dal passaggio delle biscrome del clarinetto. Viene quindi il secondo tema più nostalgico e meditativo che dagli archi rimbalza su un accompagnamento pizzicato del violoncello allo strumento a fiato, che modula con vellutato smalto melodico fino alla conclusione dell'esposizione. E' uno dei momenti di pura poesia del K. 581, arricchita dagli arpeggi ascendenti e discendenti del clarinetto, prima di sfociare nella lieta cadenza conclusiva. Nel Larghetto in re maggiore emerge un canto elegiaco del clarinetto, sostenuto dagli archi in sordina; un nuovo tema viene annunciato dal primo violino e il discorso fra i vari strumenti si articola in un clima di estatica contemplazione. Un accento vagamento popolaresco e rustico ha il successivo Minuetto, interrotto dal trio in la minore riservato ai soli archi, prima della ripresa elegantemente ritmica della danza sospinta nella tonalità di la maggiore dal clarinetto.

L'Allegretto finale è formato da un tema in tempo di marcia, cui seguono cinque variazioni in un fresco alternarsi di giochi timbrici tra gli archi e il clarinetto: quest'ultimo nella quarta variazione si lancia in vivaci e brillanti passaggi virtuosistici. La quinta variazione è un adagio variegato di teneri arabeschi strumentali, interrotto da un’energica e risoluta coda, perfettamente consona allo spirito cordiale e amichevole dell'opera.


5 GIUGNO 2024, ORE 19

I VIRTUOSI ITALIANI

Alberto Martini maestro di concerto al violino

Massimo Mercelli flauto

DAL BAROCCO ALLA TEMPESTA D’AFFETTI

Prima di giungere a Venezia, Charles Burney si fermò a Padova, desideroso di vedere quella Chiesa di Sant'Antonio dove aveva operato uno dei più grandi violinisti dell'epoca, Giuseppe Tartini: "In questi ultimi anni il soggiorno del celebre compositore e violista ha reso questa città non meno famosa che nell'antichità per essere stata il luogo natale del grande storico Tito Livio. Tartini era morto pochi mesi prima del mio arrivo qui, e considerai questo evento una particolare sventura per me ed una perdita per tutto il mondo musicale. Era un grande maestro e avrei desiderato molto sentirlo suonare così come poter conversare con lui. Visitai la strada e la casa dove aveva vissuto, la chiesa e la tomba dove era stato sepolto; volli vedere il suo busto, il suo successore, il suo esecutore testamentario, ogni cosa, anche insignificante e banale, che potesse illuminarmi sulla sua vita e sul suo carattere. Mi interessai a tutto ciò con lo zelo del pellegrino alla Mecca" (C. Burney, Viaggio Musicale in Italia, 30 luglio-2 agosto 1770).

Tra i grandi compositori del Settecento strumentale italiano, Tartini incentrò la quasi totalità della sua produzione attorno al suo strumento d'elezione con ben 135 Concerti per violino e circa 200 Sonate per violino e basso continuo. Per scelta non si cimentò mai con il melodramma e con gli altri generi vocali nonostante numerose pressioni poiché, come lui stesso dichiarò nel 1739, "sono stato sollecitato a comporre per i teatri di Venezia, ma non l'ho voluto mai fare, sapendo bene che una gola non è un manico di violino".

La maggior parte della produzione tartiniana è ancora manoscritta e solo poche composizioni apparvero in edizioni a stampa dell'epoca fra cui quelle di Le Cène e Witvogel ad Amsterdam e quelle di Le Clerc a Parigi.

Considerando che Tartini abitualmente non riteneva importante datare i propri lavori, solo il posteriore studio stilistico complessivo ci consente oggi di tracciare una ipotesi di percorso cronologico compositivo all'interno del complesso corpus musicale del padovano.

Lo studioso Minos Dounias, a cui si deve l'attuale catalogazione dei Concerti, colloca la prima fase della produzione tartiniana fra il 1721 e il 1735 con lavori chiaramente riferiti al modello del Concerto Grosso di stampo corelliano: netta distinzione tra gli episodi del solo e quelli del tutti, funzione marginale del movimento lento centrale, presenza di interi movimenti in stile imitativo polifonico.

La forma predominante sarà invece quella tripartita (Allegro-Adagio-Allegro) resa sistematica da Vivaldi e dai compositori veneziani. A Carl Philipp Emanuel Bach secondogenito di Johann Sebastian, tenuto a battesimo da Telemann di cui sarebbe poi stato il successore (1767) ad Amburgo, si attribuiscono venti sinfonie (classificate nel catalogo di Alfred Wotquenne del 1905 sotto i nn. 173 - 183). Al n. 182 di tale catalogo figurano le Sei Sinfonie composte nel 1773 per il barone Gottfried van Swieten (1733 - 1803), anno in cui questi pubblicò a Rotterdam una dissertazione di musicoterapia (Dissertatio sistens musicae in medicinam influxum et utilitatem). Figlio di un famoso medico Gerard (1700 - 1772) che fra le mansioni ricoperte ebbe anche quella di protomedico dell'imperatrice Maria Teresa d'Austria (nel 1745 egli si era trasferito con la famiglia a Vienna), il barone van Swieten - che era nativo di Leida - aveva presto abbandonato le scienze mediche per seguire la carriera diplomatica: fu legato imperiale a Bruxelles (1755), Francoforte (1758), Parigi (1760), Varsavia (1763), Vienna (1764), Berlino (1770-1777). Ottimo dilettante di musica (di lui si conservano, fra l'altro tre opéras-comiques e una dozzina di sinfonie), quando prese stanza definitiva a Vienna (1777), abbandonando la carriera diplomatica, divenne il principale artefice della vita musicale della capitale imperiale: promosse la costituzione di una "Società dei Cavalieri" per la valorizzazione della musica antica, si impegnò nel diffondere la musica di Händel (fu il van Swieten a commissionare a Mozart la "revisione" di quattro capolavori händeliani, fra cui il Messia) e di Bach, indusse Haydn a comporre i due grandi oratori Die Schöpfung e Die Jahreszeiten (suoi ne sono i libretti) e protesse il giovane Beethoven (che gli dedicò la Prima Sinfonia).

Durante il soggiorno berlinese, Gottfried van Swieten era entrato in contatto con Carl Philipp Emanuel Bach, allora al servizio di Federico II di Prussia: gli commissionò le sei Sinfonie di cui si diceva e più tardi, nel 1783, ricevette dal compositore l'omaggio della dedica d'una raccolta (la terza) di sei Sonate per cembalo. Le Sinfonie rimasero inedite per lungo tempo e solamente nel 1937 vide la luce quella in si minore a cura di Ernst Fritz Schmid nel Nagels Musik-Archiv dell'editore Nagel di Celle. Sembra che van Swieten avesse raccomandato a Carl Philipp Emanuel di lasciare libero sfogo alla propria fantasia e di non preoccuparsi delle difficoltà tecniche che la sua scrittura avrebbe potuto comportare. La Sinfonia in si minore è in tre movimenti: un elegiaco Allegretto, un pacato Larghetto e un travolgente finale Presto.

Soggetto dal carattere nobile ma al tempo stesso risoluto, il tema orchestrale in modo minore dell'Allegro che apre il Concerto in re minore per flauto, orchestra d'archi e basso continuo H 484.1 presenta un'articolazione della frase tipicamente barocca, impreziosita dai giochi imitativi dei bassi che fanno da eco alla melodia dei violini. Un pedale armonico (di dominante) delimita la parte conclusiva dell'episodio iniziale, lasciando spazio al solista che, a differenza degli altri due concerti, riprende in maniera quasi letterale il tema orchestrale, per poi discostarsene in un secondo tempo. Al successivo ritornello del tema in modo maggiore replica il solista con un'ampia fantasia nella quale riecheggia l'incipit del tema e con un'incalzante progressione con trilli che termina su un pedale armonico. Dopo un'ulteriore alternanza tra orchestra e solista si giunge alla conclusione con il tema, riportato nella tonalità iniziale inframmezzato dall'ultimo spunto del flauto.

In alternativa al modo minore del primo movimento, il tempo lento centrale - Un poco Andante - si dipana in un sereno e pacato modo maggiore sostenuto dal tranquillo pulsare del basso. Inizialmente il solista ripropone la melodia del tema, aggraziandola con alcuni abbellimenti, per poi discostarsene e seguire un percorso più libero, Nella sezione centrale parte del tema orchestrale viene ritornellata in una diversa tonalità, per poi lasciare spazio a un'ampia fantasia melodica del flauto che gravita nel modo minore. Il tema torna quindi nella tonalità principale, esposto inizialmente dall'orchestra e quindi, con delle varianti, dal solista, in un'alternanza tra tutti e solo che si prolunga fino al termine.

Il tema orchestrale dell'ultimo tempo - Allegro di molto - presenta un carattere intenso e drammatico, piuttosto insolito per queste pagine; di esso il solista riprende con alcune varianti la parte iniziale, per poi seguire un percorso nettamente diverso. Il tema viene quindi riproposto in maggiore dall'orchestra e successivamente dal solista, che ne abbandona però la traccia per liberarsi in una lunga e virtuosistica fantasia. Un successivo ritornello orchestrale in una differente tonalità minore è seguito da un intervento deciso del flauto, nel quale riecheggiano frammenti del tema, intercalato da brevi stacchi orchestrali. Il ritorno del tema nella tonalità iniziale delimita la sezione conclusiva, che viene completata da un ultimo intervento del solista e dalla coda finale basata su elementi del tema principale.


19 GIUGNO 2024, ORE 19

I VIRTUOSI ITALIANI

Paola Bonora flauto

Paolo Pollastri oboe

Alberto Martini violino

Francesco Fontolan fagotto

Federico Toffano violoncello

Marco Vincenzi clavicembalo

VIRTUOSISMO STRUMENTALE

Antonio Lucio Vivaldi, ordinato sacerdote nel 1703 e chiamato il “Prete rosso” per il colore dei suoi capelli, dopo la sua consacrazione accettò il ruolo di “maestro di violino” presso il prestigioso ‘Ospedale della Pietà’ a Venezia, dove insegnò, ancora sconosciuto, alle fanciulle, chiamate “le putte”, ospitate alla Pietà e per le quali si dedicò alla composizione di concerti vocali e strumentali a loro destinati. La musica costituiva all’inizio una delle tante materie insegnate, ma presto divenne predominante facendo divenire gli Ospedali delle strutture specializzate, enormi fucine di talenti. Vivaldi scrisse in questi anni tanta musica di alto livello virtuosistico, era per le sue “putte” che lavoravano a tempo pieno eseguendo frequentissimi concerti ed esercitandosi giornalmente raggiungendo livelli esecutivi sempre più alti. La sua musica veniva espressamente scritta per le “putte” e spessissimo Vivaldi siglava all’inizio della partitura il nome della fanciulla che avrebbe dovuto suonare o cantare il suo componimento, si può quindi ipotizzare che il Prete rosso quando scriveva aveva già ben in mente le qualità dell’esecutrice ed il risultato dell’esecuzione potendo spinge- re sempre più in alto il livello virtuosistico. 

La grande disponibilità di abili musiciste che Vivaldi poteva avere in qualità di “Ma- estro de’ Concerti” presso la Pietà a Venezia, contribuì a favorire un’ampia ricerca di diverse combinazioni strumentali, prospettando un’esplorazione più ricca e varia rispetto alla consuetudine, con soluzioni paragonabili a quelle dei Brandeburghesi di Bach. Composizioni dunque di insolita strumentazione, la maggior parte di questi “Concerti senza orchestra” rivela il gusto vivaldiano per l’onomatopea e per il descrittivismo sonoro; alcuni possono essere considerati come una serie di concerti per flauto, altri invece, per l’alternarsi di episodi stilistici in varie combinazioni strumentali, possono essere considerati assimilabili alla struttura del Concerto Grosso. Sono opere nelle quali le forme della tradizione musicale barocca sembrano venire intenzionalmente trasformate, sviluppando modelli compositivi più aperti, consentendo di sperimentare nuove possibilità̀ formali e timbriche. 

Un programma tutto “all’italiana”, in definitiva, contraddistinto da un pizzico di follia, dal piacere dell’improvvisazione, dalla visionarietà̀ di sogni e apparizioni fantastiche, dall’abbandono al piacere dei sensi. Tutta una serie di caratteristiche che identificano gli italiani in Europa tra Sei e Settecento (e anche oltre) e che sembrano incarnarsi nella figura di Antonio Vivaldi, “il Prete Rosso” che una fonte dell’epoca ricorda come “eccelentissimo [sic] Sonatore di Violino” e “stimato compositore de concerti” che “guadagnò ai suoi giorni cinquantamille ducati, ma per sproporzionata prodigalità morì miserabile in Vienna”. 


3 luglio 2024, ore 19

I VIRTUOSI ITALIANI

Alberto Martini maestro di concerto al violino

FEDERICO TOFFANO violoncello

dal barocco allo Sturm und Drang

Figura maggiormente rappresentativa del cosiddetto Empfindsamer Stil ("Stile sensibile") che, soprattutto nella Germania settentrionale, influenzò e caratterizzò la produzione musicale di una buona parte del '700 Carl Philipp Emanuel Bach fu il più famoso e prolifico tra i figli di Johann Sebastian, del quale all'epoca - in considerazione degli incarichi musicali che ricoprì - superò la fama. Se dunque oggi parlando di Bach è naturale pensare in primo luogo al Kantor dì Lipsia, nella seconda metà del secolo XVIII è verosimile che, quantomeno in Germania, fosse Philipp Emanuel il musicista al quale si faceva implicitamente riferimento.

Due lunghi periodi scandiscono la carriera del compositore: i circa trent’anni trascorsi a Berlino alla corte di Federico il Grande e il ventennio seguente durante il quale ricoprì la carica di Generalmusikdirektor ad Amburgo, succedendo a Telemann. 

Specialmente una volta che Federico fu salito al trono, nel 1740, Philipp Emanuel ebbe modo di trovarsi al centro di una intensa vita intellettuale e musicale (tra l'altro nel 1742 nella capitale prussiana si inaugurava il grande Teatro dell'Opera), che la corte e lo stesso ambiente berlinese erano in grado di offrire. Malgrado ciò la posizione raggiunta - peraltro modestamente remunerata rispetto agli altri musicisti - e la non ampia considerazione di cui godeva a corte erano insoddisfacenti per il giovane Bach: di fatto il suo ruolo principale era quello di accompagnare al clavicembalo.

Soprattutto dopo la fine della Guerra dei Sette Anni, nel 1763, visto l'esiguo aumento del proprio compenso a corte, Philipp Emanuel intensificò la propria ricerca per nuove opportunità di carriera. La scomparsa di Telemann nel 1767 rese disponibile il posto che questi ricopriva ad Amburgo, per il quale dunque Emanuel non esitò a presentare la propria candidatura, che infine fu preferita a quella di altri musicisti. Avuto, non senza qualche difficoltà, il consenso di Federico II, il compositore - ormai conosciuto a livello europeo per le sue eccelse qualità di interprete e di didatta - prese servizio nella città anseatica nell'aprile del 1768, assumendo un incarico che includeva la direzione del servizio musicale nelle principali chiese della città e la funzione di Kantor nel Johanneum. Compiti piuttosto impegnativi e non molto differenti da quelli che Johann Sebastian aveva avuto a Lipsia, ma se già Telemann aveva avuto il permesso di non occuparsi direttamente dell'insegnamento di materie non musicali, al giovane Bach fu pure concesso di stipendiare un aiutante.

L'ambiente di Amburgo, anche se non paragonabile dal punto di vista musicale a quello di Berlino, era comunque fortemente influenzato dalle attività commerciali, dunque piuttosto informale, gioviale e ricco di stimoli. Philipp Emanuel si trovò decisamente a proprio agio - il cambiamento rispetto alla più rigida vita di corte fu senz'altro positivo - e continuò ad avere, nella propria cerchia di amici, poeti, letterati, intellettuali, docenti, che come lui erano attratti dalla liberalità e dall'ampiezza di vedute che caratterizzava la città-stato anseatica. Ecco, pertanto, i contatti col barone Gottfried van Swieten, per il quale scrisse un gruppo di Sinfonie e al quale dedicò una collezione di brani per clavicembalo.

Il rapporto con questi artisti mette chiaramente in relazione il nuovo spirito letterario dello Sturm und Drang col cosiddetto Empfindsamer Stil, che si ritrova quasi esclusivamente nella musica strumentale tedesca di quel periodo. Un gusto sentimentale che punta a esplorare le atmosfere più patetiche, passando repentinamente dal più profondo intimismo alla massima enfasi, giocando su improvvisi cambi della dinamica, inaspettate modulazioni, slanci ed esitazioni, ritmi sincopati che vanno a frammentare l'andamento regolare del brano, fino all'introduzione di veri e propri recitativi strumentali. 

Ma, tornando agli anni che precedono la metà del secolo, egli è anche il protagonista di un netto cambiamento all'interno dello stesso ambito familiare. La sua musica testimonia la forte mutazione del gusto musicale e lo scarto generazionale rispetto a Johann Sebastian, il cui stile severo viene considerato superato e definito 'asciutto' dal trentenne Philipp Emanuel. Il richiamo alla musica per strumento a tastiera non è casuale, vista la centralità che ricopre nella sua ampia produzione, testimoniata anche dal celebre Saggio di metodo per la tastiera. Il trattato (pubblicato nel 1753, al quale seguirà nel 1762 una seconda parte dedicata al basso continuo) è una delle più preziose fonti di informazione sull'interpretazione della musica di quel periodo e forma una ideale triade insieme a quello di Quantz sul flauto (Saggio di metodo per suonare il flauto traverso, 1752) e a quello di Leopold Mozart, padre di Wolfgang Amadeus, sul violino (Metodo per una approfondita scuola per violino, 1756). Per inciso non si può non notare come queste tre opere, di fondamentale importanza anche per le loro connessioni con la coeva cultura letteraria, filosofica e religiosa, siano apparse nei sei anni che intercorrono tra la morte di J. S. Bach (1750) e la nascita di W. A. Mozart (1756). 

La maggior parte delle sue circa venti Sinfonie risale agli anni di Amburgo: quella in programma questa sera fa parte di un gruppo di sei (Wq 182) composte nel 1773 per il barone Gottfried van Swieten, allora ambasciatore austriaco alla corte di Berlino. Pur non essendo immuni, fin dal loro organico strumentale, da reminiscenze barocche, queste Sinfonie presentano alcuni tratti - improvvisi scarti ed increspature, contrasti ravvicinati di forte e piano, di modo maggiore e minore - tipici di quello stile Sturm und Drang che proprio in quegli stessi anni avrebbe fatto sentire la sua influenza anche nella produzione di Haydn e del giovane Mozart.


Vira decisamente verso lo spirito dello Sturm und Drang il Concerto in la maggiore H. 439 (Wq. 172), versione alternativa di un brillante Concerto per clavicembalo (H. 437, Wq. 29), puntualmente adattato anche per il flauto traverso (H. 438, Wq. 168), in probabile considerazione dei desideri solistici di Federico II. Qui la freschezza dell'inventiva melodica, lo slancio ritmico e il ricco contrasto espressivo concorrono felicemente a raggiungere un risultato musicale di estremo interesse sia nel movimento iniziale sia nel travolgente Allegro assai che conclude il Concerto, tra i quali si inserisce un Largo con sordini-Mesto - ancora una volta in modo minore - che spicca per intensità e commozione, trasportando l'ascoltatore come all'interno di una immaginaria scena d'opera.

Da citare infine una piccola curiosità che, anche se non direttamente, collega Cari Philipp Emanuel Bach alla città di Roma, dove nel 1778 morì per una malattia, a soli trentanni, il suo secondogenito, battezzato col nome del nonno Johann Sebastian e, pare, destinato a una promettente carriera come pittore.


17 luglio 2024, ore 19

I VIRTUOSI ITALIANI

ALBERTO MARTINI maestro di concerto al violino

Glauco Bertagnin violino

Giacobbe Stevanato violino

Paolo Tagliamento violino

I CONCERTI PER LE SOLENNITà DI DON ANTONIO

Nel secolo XVIII, ultimo nella storia di Venezia come stato sovrano, Principi e nobili viaggiatori di tutta Europa vi giungono per conoscere artisti e acquistarne le loro opere o addirittura per attirarli al proprio servizio, "souvenir vivant" di un indimenticabile soggiorno.

In questo scenario sfavillante e allo stesso tempo estremamente agonistico si trovò a misurare e dimostrare il proprio talento ANTONIO VIVALDI. Mentre alla Basilica di San Marco brilla la stella di F.M. Veracini, a Padova nella Basilica del Santo, per la festa della "Traslatione della Sacra lingua di S.Antonio" (15 febbraio 1712), Vivaldi compone ed esegue il Concerto solenne in Re maggiore RV 212. La lista dei pagamenti di quell'occasione registra un compenso straordinario "alli due violini deti li Rossi" (padre e figlio con l'ineluttabile colore di capelli), e addirittura una medaglia d'oro "per far donativo al Violin che sonò in deta Solenità". Dovette sicuramente generare enorme meraviglia il livello di straordinario virtuosismo contenuto in quel concerto, livello che appare quasi insuperato. Non risulta più così esagerato lo sgomento del viaggiatore tedesco J.F.A. von Uffenbach, privilegiato spettatore al teatro S. Angelo il 4 febbraio 1715: "Verso la fine Vivaldi suonò un a solo, splendido, cui fece seguire una cadenza, che davvero mi sbalordì, perché un simile modo di suonare non c'è mai stato né potrà esserci: faceva salire le dita fino al punto che la distanza d'un filo le separava dal ponticello, non lasciando il minimo spazio per l'archetto". A dar retta a Benedetto Marcello e al suo "Teatro alla Moda' (1720) potrebbe aver eseguito la stessa cadenza di Padova visto che "il primo violino ... farà cadenza lunghissima, quale porterà seco già preparata, con arpeggi, soggetti a più corde..."

Il Concerto in Mi maggiore RV 270 dal titolo "Il riposo", al quale in un secondo momento Vivaldi aggiunse l'indicazione "per il S.Natale" brilla invece di una luce che potremmo affianca a quella del pittore bellunese Sebastiano Ricci (1659?1734) e al suo "Rococò luminoso".

Databile agli anni '20 e legato forse all'oratorio di Natale composto per Milano nel 1722 "L'Adorazione delli Tre Re Magi al Bambino Gesù", attraverso l'uso degli strumenti sordini e l'assenza del basso continuo ("sempre senza cembali"), abbandona la grandiosità dei concerti precedenti per una ricerca di intimità sonora, rarefatte e chiare, decisamente piu consone alla festività del Natale.

Il Concerto "Per la Solennità di S. Lorenzo" RV 286, composto attorno al 1727, rivela un'altra delle innumerevoli sfumature stilistiche di Antonio Vivaldi, oltre alla sincera fonte ispiratrice di un compositore che, non dimentichiamo, era anche sacerdote. Nel Concerto la tenebra del secondo movimento è incastonata tra il barbaglio accecante dei soli del primo movimento e lo squillante ritornello del terzo movimento dove i secondi violini imitano le campane a festa. A Venezia la ricorrenza di S. Lorenzo (10 agosto) era infatti occasione per una vera e propria "fiera". Aveva luogo presso la chiesa intitolata al Santo ed erano le monache benedettine dell'attiguo monastero a celebrarla "con gran pompa e sontuosa musica" e con "copiosi rinfreschi" distribuiti al termine, come riportano le cronache dell'epoca.

I due concerti per la festività dell'Assunzione (15 agosto) furono probabilmente composti per la chiesa dell'Ospedale della Pietà, durante gli ultimi periodi di impiego di Vivaldi come "Maestro de Concerti". Sono gli unici concerti legati a solennità che prescrivano un'esecuzione in doppio coro. La chiesa della Pietà a quel tempo era la più piccola tra le chiese degli Ospedali veneziani e fu tra le ultime a seguire la moda del doppio coro: due piccoli coretti lignei laterali furono edificati solo nel 1724, un secondo organo vi fu aggiunto solo dopo il 1735. Alla prima fase, quella per intenderci con un solo gruppo di basso continuo nella cantoria centrale ed un effetto contrapposto di violini e viole, appartiene il Concerto in Re maggiore RV 582. Scritto per l'allieva Anna Maria, una delle famose "putte" della Pietà, forse la violinista più brava in quel tempo a Venezia, il concerto partecipa del gusto per l'invenzione decorativa dell'Opera VIII, con un nostalgico sguardo alla semplicità perduta nel movimento centrale: un "Grave" che ricorda le prime Sonate dell'Opera II (1709) a violino e basso, alleggerito nella forma più galante del duetto (violino solo e violino "bassetto"). La cadenza suggerita da Vivaldi al termine dell'Allegro conclusivo è stata presa a prestito dal Concerto RV 213a per affinità di spunti tematici.

Il Concerto in do maggiore: «Per la SS. Assunzione di Maria Vergine» è stato scritto non sappiamo esattamente quando: ma certamente appartiene alla grande maturità di Vivaldi (se pure, per un artista così vivo e cosciente si può parlare di «periodi di maggiore o minor maturità»). Il sottotitolo dice: «Concerto per violino, archi "in due cori" e 2 cembali » (quei due «cori» d'archi, e il modo con cui sono trattati, ci fanno pensare che Vivaldi si sia ricordato delle orchestre che si rispondevano dalle varie gallerie della Basilica di San Marco, nell'epoca dei due Gabrieli). Tre tempi: un Allegro iniziale, preceduto da una breve introduzione Largo e staccato per le due orchestre all'unisono, un Largo espressivo centrale. ed un Allegro tipicamente vivaldiano che serve di conclusione.


31 luglio 2024, ore 19

I VIRTUOSI ITALIANI

Alberto Martini maestro di concerto al violino

Antonio VIVALDI: I CONCERTI DELLA NATURA E DELLE PASSIONI UMANE

Il concerto “Alla Rustica” in apertura di programma, di cui G. F. Malipiero ha curato la realizzazione del basso, è, nella sua brevità, una delle opere più singolari e interessanti di Vivaldi.

A proposito di questa composizione riportiamo quanto ne scrive Mario Rinaldi nella sua biografia vivaldiana: «Nella nota apposta alla partitura del concerto Alla Rustica il Casella (...) ricorda che tali pagine si trovano, segnate con il numero 14, nel volume terzo delle opere sacre, e precisamente nella Raccolta Renzo Giordano, custodita nella Biblioteca Nazionale di Torino. La composizione, fatto piuttosto raro nella produzione del «Prete rosso», non comporta parte solistica. Nulla è stato toccato dal trascrittore nella partitura propriamente detta; l'unica aggiunta è stata quella del cembalo la cui parte, secondo l'uso dell'epoca, non è realizzata nell'originale. Il nome al concerto è dato, naturalmente, dall'andamento del primo tempo. Si tratta di una danza molto briosa che, dopo uno sviluppo abbastanza ampio, passa rapidamente in minore.

Interessante è notare come, alla metà del tempo, il movimento principale passi dai primi ai secondi violini, rafforzati dalle viole. Il tempo centrale ha un carattere maestoso reso con pochissimi elementi; alle note solitarie e solenni del quartetto risponde il cembalo con gravità: tutto è molto bello, riuscito e realizzato con un numero limitatissimo di battute (se ne contano appena 16). L'«Allegro» finale è chiaro e trasparente, salvo quella «serpentina» di biscrome che serve come di ornamento. Anche questo tempo sembra voglia giustificare il titolo dell’opera e chiude la breve composizione in piena festosità».

Inserito nella celebre raccolta op.8 del 1725, Il cimento dell'armonia e dell'invenzione (quella che si apre con Le quattro stagioni) è invece il Concerto RV 180 in do Maggiore sottotitolato "Il piacere". Fedele all'intento programmatico dell'intero volume, Vivaldi dona anche a questa composizione una doppia lettura, musicale e "rappresentativa". Un Allegro spedito e simmetrico, votato alla ricerca delle "delizie" sonore (con il raggiante protagonismo del violino solista), lascia poi spazio, in un secondo movimento Largo, ad una più intima riflessione sulla "precarietà" del piacere e il tempo di Siciliana associa la linea cromatica discendente all'"affetto" barocco del lamento. Ma la consapevolezza della fragilità umana non esclude la possibilità di godere delle bellezze del mondo, ed ecco quindi rinvigorirsi la volontà di continuare - in un brioso caleidoscopio di note (Allegro) - quella magica esplorazione che si chiama vita.

Vita che per il compositore veneziano si fa sempre più amara con il passare degli anni. Il 29 agosto 1739, Charles de Brosses, a Venezia (Lettres historiques et critiques sur l'Italie) così ne commenta l'incontro: "Vivaldi mi si è fatto amico intimo per vendermi i suoi Concerti ad un prezzo molto alto. In parte ci è riuscito, così come anch'io sono riuscito nel mio intento che era di ascoltarlo e di avere sovente con lui piacevoli intrattenimenti musicali: è un vecchio con una prodigiosa smania di comporre. L'ho sentito io stesso vantarsi di poter comporre un Concerto, completo in tutte le sue parti, più rapidamente di quanto impiegherebbe un copista a trascriverlo. Ho scoperto, con grande meraviglia, che non gode di tutta la stima che meriterebbe in questo Paese dove tutto deve essere moda, dove si ascoltano le sue opere da troppo tempo e dove la musica dell'anno prima non fa più cassetta".

«L'inquietudine» RV 234 appartiene alla straordinaria serie di concerti per violino di Vivaldi concepiti come medaglioni di affetti, e nello specifico al gruppo risalente intorno al 1720 che comprende anche «Il sospetto» RV 199 e «Il riposo» RV 270 (un quarto concerto, «Il piacere» RV 180 sarà pubblicato nell'op. VIII del 1725).

Nell'«Inquietudine» appare impressionante la capacità di Vivaldi di evocare l'affetto in questione grazie a una gestualità compositiva concentrata, a un'estrema economia tematica e al princìpio della ripetizione melodica e ritmica. Tutto, insomma, concorre a imprimere al dettato musicale una tinta unitaria in funzione rappresentativa: l'accumulo di tensione emozionale prodotto dalla concitata e incessante pulsazione ritmica, la segmentazione e i continui cambi di direzione delle linee melodiche, le studiate asimmetrie della struttura sintattica.

La forma dell'Allegro molto con cui s'apre il concerto è assai concisa e, per così dire, compressa in una specie di tour de force. Il ritornello orchestrale, che si svolge interamente su pedali articolati di tonica e di dominante, è costituito da un movimento di arpeggi senza requie. Integrati con le figure e il movimento del ritornello sono i due episodi solistici la cui scrittura insiste sulla ravvicinata successione di ampi intervalli e salti di registro e su una condotta melodica frammentata e instabile. Il secondo episodio si ricollega all'attacco del primo, mentre tocca inopinatamente alla dinamica modulante del ritornello di chiusura il compimento della struttura tonale del brano. Assai concisa è anche la forma del Largo, dove una sezione orchestrale basata sulla ripetizione di figure in ritmo puntato e rapide volatine ascendenti e discendenti comprende una breve sortita cantabile del solista accompagnato dal ritmo puntato delle parti di violini e viola. Sia nella specificità dei motivi tematici sia nell'insieme, il Largo mostra una notevole affinità con i movimenti iniziali dei concerti intitolati «La notte» (RV 104/439 e RV 501); affinità tanto più significativa se si considera che questi ultimi sono tra i lavori vivaldiani più visionari, cupi e angoscianti. Le figure in ritmo puntato e gli arpeggi si ripresentano nel ritornello dell'Allegro finale che nel corso del movimento conosce un processo di arricchimento e di progressiva intensificazione ritmica. In particolare, il terzo ritornello è pressoché identico a una sezione orchestrale che s'incontra nella tempesta del finale dell'«Estate» RV 315, ma anche i tre episodi solistici sono connotati dalla gestualità virtuosistica e dal moto perpetuo di moduli figurali, arpeggi e scale propri di quella come delle altre tempeste vivaldiane. Dopo il crescendo virtuosistico dell'ultimo episodio conclude il Concerto il ritornello suggellato da una nuova sezione d'epilogo.

Il titolo «Il favorito» manifesta la predilezione per il Concerto RV 277 da parte dell'autore stesso o forse dell'imperatore Carlo VI (pubblicato nell'op. XI del 1729, il lavoro è infatti presente anche nella raccolta manoscritta La cetra offerta da Vivaldi al sovrano un anno prima). Si tratta dunque di un titolo impegnativo, ma che trova puntuale riscontro nell'eccellenza dell'invenzione e nella fattura preziosa del concerto. Del resto la perfezione formale, l'ampio respiro, la superba e introspettiva eloquenza, la ricchezza del linguaggio cromatico, l'aristocratica intensità espressiva e l'elaborazione compositiva implicano un registro retorico particolarmente elevato; tanto che, in qualche modo, il lavoro si pone come una sorta di idealizzata quintessenza del più maturo concerto vivaldiano. E questo si ravvisa anche nel disegno raffinatissimo e lussureggiante della parte solistica, improntata al virtuosismo lirico e cantabile proprio dello stile vivaldiano a partire dalla metà degli anni Venti.

Nell'Allegro d'apertura, al tratto austero e perfino spigoloso dei ritornelli orchestrali connotato da stentoree figure d'arpeggio e scale imperiose, fa appunto riscontro il virtuosismo lirico dei quattro episodi solistici dove la linea del violino principale conosce momenti di autentico abbandono cantabile. In particolare, l'ultimo episodio incomincia con l'elaborazione di un motivo cromatico del ritornello, quindi ripropone, dopo l'interpolazione di una sezione orchestrale di ritornello, l'attacco del primo episodio con effetto di ripresa. Nel folgorante Andante il ritornello orchestrale è ridotto a semplici accordi scanditi dalle parti di violino e viola per incorniciare, sostenere e inframmezzare due ampi episodi solistici, il secondo dei quali incomincia come variazione e parafrasi del primo. Nel movimento, senza basso, il lirico dipanarsi della linea solistica assume i tratti di un'incantata meditazione divagante che pare formalizzare la naturalezza sorgiva di un'improvvisazione. Anche nell'Allegro finale i ritornelli orchestrali dove compaiono motivi di caccia, sincopi e cromatismi, tendono a differenziarsi dalla scrittura più mossa e variegata dei quattro episodi solistici dove s'alternano passi di bravura e frasi più liriche. Il primo episodio trae spunto direttamente dalla testa del ritornello; l'ultimo dalla sezione cromatica e sincopata dello stesso ritornello.

7 settembre 2024, ore 19

I VIRTUOSI ITALIANI

MaxVokal Choir di Monaco di Baviera

Gerald Häußler direttore

Alberto Martini maestro di concerto al violino



GLORIA RV 589

Facile da raggiungere

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